Dal 29 aprile, quando si sono perse le tracce di Saman Abbas, il dibattito relativo – in rete, sui giornali e in tv – è stato per un paio di mesi martellante. Poi si è affievolito. Infine, dopo l’arresto dello zio, il tam tam è ripreso. Propongo una breve riflessione sui problemi che ho rilevato nel modo in cui quasi tutti i media trattano il caso.
In generale, per i media come per la politica, la prima regola dovrebbe essere quella di non strumentalizzare un evento criminale. Invece, la strumentalizzazione avviene sempre. In questo caso, il femminicidio è associato all’etnia dei pachistani e alla religione islamica: lo fanno la destra più o meno estrema e i media che le sono vicini, per fomentare spinte xenofobe, assumendo (o apertamente dicendo) che chi è pachistano e/o musulmano ha più probabilità di trovarsi (come vittima o carnefice) in situazioni terribili come quella che ha permesso la tragedia.
Dal centrosinistra (politico o mediaticamente simpatizzante) si agitano d’altra parte coloro che, per combattere la strumentalizzazione, negano con forza qualunque nesso fra questo femminicidio e l’etnia-cultura-religione entro cui è avvenuto. Entrambe le posizioni sono polarizzate, estreme. Ed entrambe sono sbagliate.
Se da un lato è biecamente manipolatorio cavalcare una tragedia per aizzare le folle contro gli stranieri, dall’altro è pure fuorviante negare il nesso fra l’uccisione di Saman e la cultura da cui la ragazza proveniva. Esattamente come non si può negare che ci sia un nesso fra la cultura patriarcale italiana e i femminicidi che di continuo insanguinano il nostro Paese.
Ovviamente la società italiana e quella pachistana sono molto diverse. Ma è anche una questione di tempi. In Pakistan solo nel 2017 è stata introdotta la legge contro i matrimoni forzati, ed è ovvio che in quel Paese ci siano ancora resistenze forti. In Italia, viceversa, le battaglie femministe sono cominciate negli anni Sessanta, e stupisce che, dopo decenni di rivendicazioni e atti legislativi, ci si trovi ancora, nel 2021, a fronteggiare un femminicidio ogni due o tre giorni. Dopo tanti anni, insomma, l’Italia mostra una resistenza incredibile contro la parità di genere.
Ma c’è una cosa di cui non si parla quasi mai. Seguendo il caso di Saman, resto sempre sorpresa dal mancato dibattito sul ruolo dei servizi sociali e sulla loro responsabilità – certo involontaria, ma comunque c’è – in questo tragico evento. Perché la giovane non è stata protetta? Perché è andata sola e nessuno l’ha accompagnata a casa dei genitori? Integrazione vuol dire anche occuparsi di sacche culturalmente arretrate, come quella che ha portato all’uccisione di Saman. Perché non riusciamo ad evitare queste tragedie in Italia?
La soluzione sarebbe un investimento massiccio sul welfare sociale, in cui da decenni lavorano operatori – e soprattutto operatrici – in condizioni pessime, sottopagati e sottodimensionati, con impedimenti forti e spesso invalicabili: precarietà, isolamento, disorganizzazione, burocrazia, scarsa o nessuna tutela. Impedimenti a tal punto forti e invalicabili da non impedire casi come quello di Saman.