Quando l’inchiesta portò all’arresto di Ramagnano e Varallo, nel marzo scorso, il procuratore Curcio parlò della casa di riposo di Marsicovetere come non di un "semplice focolaio" ma la definì un "altoforno", mentre il gip scrisse che quanto accaduto era stata "una vera e propria strage". Il giudice per l'udienza preliminare ha prosciolto i tre dall'accusa di epidemia colposa
Gestori e direttore di due case di riposo del Potentino, in cui morirono 22 ospiti di Covid nei mesi più duri della pandemia, sono stati rinviati a giudizio con le accuse di omicidio colposo plurimo e falso. I tre sono Nicola Ramagnano e Romana Varallo, gestori della casa di riposo di Marsicovetere, e suor Fulgenzia Sangermano, madre superiora della Suore missionarie catechiste del Sacro Cuore di Brienza che dirigeva una delle due casa di riposo. I primi due dovranno affrontare il processo anche per l’accusa di circonvenzione di incapace, mentre il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale potentino, Lucio Setola, ha prosciolto tutti dall’accusa di epidemia colposa. Il dibattimento comincerà il prossimo 17 novembre
Quando l’inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza portò all’arresto di Ramagnano e Varallo, nel marzo scorso, il procuratore Francesco Curcio parlò della casa di riposo di Marsicovetere come non di un “semplice focolaio” ma la definì un “altoforno”, mentre il gip scrisse nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere che quanto accaduto nelle due strutture era stata “una vera e propria strage” e che gli ospiti erano considerati “una fonte di guadagno da spremere fino all’ultimo respiro vitale”.
Secondo l’inchiesta condotta da carabinieri del Nas di Potenza e coordinata – oltre che da Curcio – dall’aggiunto Maurizio Cardea e dal sostituto Anna Gloria Piccininni, la gestione sanitaria della pandemia nella Rsa era stata “dissennata”. Le indagini hanno infatti accertato che persino locali come la medicheria, palestra e addirittura la camera ardente erano stati adibiti a stanze da letto per gli ospiti in sovrannumero. In questi locali “erano presenti dei divani utilizzati anche come letti”. I sopralluoghi effettuati dalle autorità sanitarie hanno inoltre appurato che la permanenza in quei luoghi aveva generato negli anziani delle gravi conseguenze: agli investigatori, uno dei medici ha raccontato che “appariva evidente – si leggeva nell’ordinanza di custodia cautelare – che gli anziani ospitati presso la detta struttura e da lui visionati sembrava non ricevessero un’assistenza adeguata difatti venivano notati in loro segni di stordimento e paura”.
A fronte di una retta che si aggirava tra gli 800 e i 1.100 euro al mese, gli anziani ricevevano un trattamento considerato disumano. I magistrati della procura di Potenza parlano anche di una “situazione determinatasi per il modo criminale con cui la stessa era gestita” spiegando che l’amministrazione della casa di riposo “non procedeva in alcun modo ad attivare le apposite procedure sanitarie previste dall’attuale normativa” come sanificazioni, isolamento, sottoposizione a tampone di tutti gli effettivi ospiti, ma anzi in un caso era stato deciso il trasferimento, senza alcuna precauzione e senza comunicazione agli organi sanitari, di una donna che era già risultata positiva. L’arrivo della anziana in una casa di riposo nel vicino comune di Brienza aveva così permesso di generare un nuovo focolaio. Anche i dipendenti – stando sempre alla ricostruzione dell’accusa – dovevano procurarsi da soli i dispositivi di protezione individuale. La casa alloggio per anziani fu posta sotto sequestro dai carabinieri il 2 ottobre 2020 e proprio in quel momento partì l’inchiesta.