Venendo meno agli Accordi di Parigi i Paesi hanno trasformato quello che era stato venduto come un successo nella più pericolosa delle promesse mancate. Ed è proprio da lì che bisogna ripartire: da quell’impegno a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, impegno che molti Paesi hanno dimenticato. Ma ora non c’è più tempo da perdere, perché altrimenti (dati Onu alla mano) verranno superati i 2,7 gradi, con effetti disastrosi per i vari ecosistemi. La Pre-COP di Milano che inizierà il 30 settembre porta con sé una missione chiara e urgente: lavorare sul piano politico, per accorciare in fretta le distanze tra i Paesi sui temi che saranno sul tavolo della COP26, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà a novembre, a Glasgow. Dietro i due tasselli che a luglio non si è riusciti a portare a casa durante il G20 sul clima di Napoli (ossia proprio gli impegni di tutti gli Stati a rimanere sotto la soglia di 1,5 gradi e le date certe per l’uscita dal carbone) ci sono tante altre misure, altri passi più o meno piccoli da compiere, per i quali i lavori di queste settimane (e gli impegni annunciati nei vertici internazionali di questi giorni) sono fondamentali. Dalla trasparenza sui dati delle emissioni alla carbon tax, passando attraverso gli impegni verso i Paesi in via di sviluppo di cui ha parlato il presidente Usa Joe Biden all’Assemblea generale dell’Onu in corso a New York, promettendo nuovi sforzi anche sul fronte dell’adattamento (“saremo in grado di raggiungere l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari per sostenere l’azione climatica nei Paesi in via di sviluppo”). Alla presentazione della Pre-COP, il ministro Cingolani ha spiegato che “non bisogna lasciare nessuno indietro”, riferendosi ai Paesi che hanno meno strumenti per affrontare la transizione. C’è uno zoccolo duro: Cina, India, Indonesia, Messico o Arabia Saudita che, però, condivide con Australia e Canada la dipendenza dai combustibili fossili.
IL SENSO DELL’URGENZA – A Napoli è venuto fuori il senso della difficoltà, ma anche quello di una incongruenza tra la lentezza delle decisioni e l’urgenza dovuta alla velocità dei cambiamenti climatici, alcuni dei quali già irreversibili, come sottolinea da anni il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Ed è proprio il senso dell’urgenza al centro delle richieste del movimento Fridays for Future (“Non staremo a guardare mentre ci viene negato il futuro”), tornato in tantissime piazze italiane per un nuovo Sciopero Globale per il Clima, il primo dopo la pandemia. Si chiedono decisioni politiche che segnino un vero momento di svolta e impegni concreti per il raggiungimento effettivo degli obiettivi dell’accordo di Parigi.All’Assemblea generale dell’Onu, il premier britannico Boris Johnson ha ricordato che alla COP26 il mondo deve impegnarsi a raggiungere la carbon neutrality entro la metà del secolo (obiettivo su cui si sono impegnati i Paesi che rappresentano il 70% del Pil mondiale), ma che “sono necessari impegni in quattro aree”: fine dell’energia dal carbone, transizione ai veicoli elettrici, finanza climatica e piantumazione di alberi.
IL LIVELLO POLITICO – “Esiste un livello di negoziazione e un livello politico e, da quel punto di vista, quello che ci possiamo aspettare dalle prossime settimane è un segnale di inversione di tendenza rispetto al passato, che preveda un’accelerazione” spiega a ilfattoquotidiano.it la responsabile Clima ed Energia del Wwf Italia, Maria Grazia Midulla, che negli anni ha seguito tantissimi vertici sul clima e diverse COP. L’appuntamento di Milano serve a preparare la strada. “È un lavoro meno appariscente, ma non meno importante, dal quale potrebbero venire fuori, anche grazie all’apporto delle nuove generazioni, elementi di possibile convergenza – aggiunge – anche perché credo che molte divergenze tra Paesi siano superabili”. Di fatto si sta lavorando su più fronti. Mentre in Italia gli occhi sono puntati su Milano, “John Kerry, inviato speciale del presidente americano Joe Biden, ha trascorso diverso tempo in Cina e si sta dando un gran da fare per convincere Pechino (e India, ndr) ad alzare l’asticella” racconta Maria Grazia Midulla. Fino a pochi giorni fa non c’erano stati nuovi impegni, dopo la promessa delle zero emissioni entro il 2060, mentre gli Usa chiedevano di anticipare al 2050, smettendo subito di costruire nuove centrali e di finanziarle all’estero.
SEGNALI DA PECHINO – In un video-messaggio inviato all’Assemblea generale dell’Onu, nei giorni scorsi il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che la Cina (che produce il 28% delle emissioni globali di gas serra) non costruirà più nuove centrali a carbone all’estero. Un passo importante, perché Pechino è il più grande finanziatore di centrali in molti Paesi in via di sviluppo ma, allo stesso tempo, più dettato da interessi economici dato che negli ultimi anni molti progetti erano stati già abbandonati perché ritenuti non convenienti, rispetto alle energie rinnovabili. Nulla, invece, è stato detto sulla dismissione del carbone in Cina dove solo negli ultimi anni sono state costruite centinaia di nuove centrali, con la riapertura di cantieri anche lì dove erano stati sospesi i lavori. Un aspetto sottolineato da Boris Johnson che ha ricordato come cinque anni fa il Regno Unito utilizzasse il carbone per generare il 25% della sua elettricità ed ora sia al 2%. Ma si tratta di due realtà molto diverse. D’altronde, già nelle scorse settimane, i funzionari di Pechino avevano chiarito che per la Cina è impossibile non inserire i negoziati nel quadro geopolitico e dei rapporti con Washington, anche se per Kerry “il clima non è di parte e non è un’arma geostrategica”. Il fatto che Usa e Cina si contendano l’energia pulita, le nuove tecnologie come l’idrogeno e persino le materie prime, come il litio, racconta un’altra storia. “Eppure queste visite dimostrano che si sta lavorando, nonostante tutto”.
I DATI DIETRO LE PAROLE DI BIDEN E GUTERRES (E DI DRAGHI) – D’altronde Joe Biden ha convocato giorni fa un incontro con i leader delle 17 maggiori economie sull’energia e il clima (responsabili dell’80% delle emissioni del pianeta), citando il nuovo rapporto Onu sul clima e definendolo “un codice rosso per l’umanità”, mentre il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è stato piuttosto diretto, come spesso è accaduto anche in passato: “Il mondo è su un percorso catastrofico verso 2,7 gradi di riscaldamento globale”. Il rapporto della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici analizza i contributi determinati a livello nazionale di tutte le parti dell’accordo di Parigi (i cosiddetti Ndc, Nationally determined contributions). Quelli disponibili di tutte le 191 parti prese insieme implicano un aumento considerevole delle emissioni globali di gas serra nel 2030 rispetto al 2010, di circa il 16%. Per l’Ipcc significa andare verso i 2,7 gradi, invece che restare entro la soglia di 1,5 gradi, come da Accordi di Parigi. “Dobbiamo essere onesti nei confronti di noi stessi: stiamo venendo meno a questa promessa” ha detto il premier Mario Draghi, intervenuto con un videomessaggio al forum, nel quale ha parlato di possibili “conseguenze catastrofiche”. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: per il gruppo di 113 Paesi con Ndc nuovi o aggiornati, si prevede che le emissioni di gas serra diminuiranno del 12% nel 2030 rispetto al 2010. E le analisi dell’Ipcc dicono che per limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5°C occorre una riduzione delle emissioni di CO2 del 45% nel 2030, mentre per restare sotto i 2°C serve una riduzione del 25%. All’interno del gruppo dei 113, poi, ci sono 70 paesi che hanno indicato obiettivi di neutralità del carbonio verso la metà del secolo, tali da portare riduzioni delle emissioni di circa il 26% entro il 2030. Ergo: bisogna raddoppiare gli sforzi.
I TEMI AL CENTRO DEI NEGOZIATI – E qui entra in gioco un altro livello, quello dei temi al centro dei negoziati e dei contrasti tra Paesi dovuti alle differenti economie, alle competizioni su più terreni di scontro, alle divergenze sui tempi. Insomma, ci sono i ‘temi che scottano’ e sui cui si discuterà anche alla Pre-COP di Milano. “Tra quelli più caldi – spiega la responsabile Clima ed Energia del Wwf Italia, Maria Grazia Midulla – ci sono la trasparenza sui dati delle emissioni e tutti quelli legati all’articolo 6 dell’Accordo di Parigi che regola il meccanismo di compensazione delle emissioni”. Significa non solo la carbon tax di cui si è discusso anche al G20 delle Finanze di Venezia e su cui ci sono diverse proposte, ma anche il sistema dei crediti che aveva creato diverse spaccature due anni fa, alla Cop 25 di Madrid, con l’Europa schierata contro il “doppio conteggio” tanto caro al Brasile (che voleva vendere i suoi crediti di carbonio ad altri Stati e, allo stesso tempo, contabilizzarli come riduzioni delle emissioni nazionali). “Credo che i conteggi sulle emissioni non sarebbero più attendibili se si arrivasse a un sistema del genere – aggiunge – e, in generale, sono convinta che una priorità assoluta sia quella di stabilire quali progetti possono o meno generare crediti di carbonio. Bisogna stabilire una tassonomia e chiarire quali sono gli investimenti sostenibili e quali sono quelli insostenibili”. Un altro tema è quello del periodo che deve intercorrere tra una verifica e l’altra: “In Unione europea c’è chi vorrebbe che il periodo durasse dieci anni, ma in questo modo si rischia di non avere la situazione sotto controllo e di agire in tempo in caso di ritardi”. E poi c’è quell’impegno delle nazioni sviluppate (che non è ancora stato mai rispettato) di mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari l’anno alle nazioni in via di sviluppo.
LA VOLONTÀ E GLI ERRORI – L’andamento di questi negoziati non può che dipendere dal livello politico. D’altronde Cingolani, a luglio scorso, parlando di quei due paragrafi dell’accordo su cui non era stato raggiunta l’intesa tra tutti i Paesi del G20, ha spiegato che sono stati rinviati al G20 dei capi di stato e di governo che si terrà a ottobre, a Roma. “A un livello di decisione politica più alta”, appunto. “A Parigi la volontà politica era fortissima” ricorda l’esperta del Wwf “ma forse è dalla Cop 15 di Copenaghen del 2009 che abbiamo avuto la lezione più importante”. Era Obama, non si riuscirono a firmare impegni post 2012 e l’Ue accettò un accordo scritto da Usa e Cina, né vincolante, né operativo. “Abbiamo imparato cosa non dobbiamo più fare”.