Poche, praticamente inesistenti, quasi mai nella rosa degli eleggibili (salvo una rarissima eccezione). A poco più di una settimana dalle elezioni amministrative c’è già una sconfitta certa: quella delle aspiranti sindache. E non c’entrano le preferenze degli elettori: non solo le donne sono destinate a perdere quasi ovunque, ma neppure sono mai state ammesse al tavolo della partita. A decretarlo sono i numeri: se si guardano i 6 capoluoghi di Regione che vanno al voto sono appena 18 su 73 candidati, che diventano appena 30 su 162 se consideriamo anche gli altri 14 capoluoghi di Provincia. Non è una sorpresa, se mai una conferma. Ma la notizia è che neanche in questa tornata la partecipazione del 51 per cento della popolazione è aumentata, anzi se possibile il quadro è peggiorato. Cosa è successo? Niente. Semplicemente i principali partiti politici, quegli stessi che ogni giorno riempiono comunicati stampa e televisioni con proclami per la parità, non hanno cambiato niente nella selezione della classe dirigente. Non lo ha fatto il Partito democratico di Enrico Letta: il Pd vanta zero candidate donne nelle principali città. Zero. Ma le cose non vanno meglio neanche nel centrodestra, dove invece negli ultimi anni abbiamo visto più donne ricoprire ruoli di vertice (una per tutti Giorgia Meloni): c’è una candidata per Fdi e Lega a Benevento, ma non rappresenta neppure tutta la coalizione di centrodestra e sfiderà il sindaco uscente Mastella. Ce n’è un’altra a Carbonia in Sardegna, ma non è tra le favorite (boicottata anche dai partiti pro Solinas). In questo quadro di immobilismo totale, c’è un’unica eccezione: il M5s ha candidato 7 donne ed è del M5s l’unica sindaca (Virginia Raggi a Roma) che può giocarsi la partita con i colleghi uomini. L’altra eccezione, estranea però a questa “classifica”, è la candidata di Pd e M5s per la Regione Calabria: i giallorossi sostengono Amalia Bruni.

Chi sono le candidate sindache e dove corrono – Lo squilibrio, al di là di qualsiasi fede o appartenenza politica, è palese a tutti, ma non esiste dibattito pubblico che abbia chiesto spiegazioni o sollecitato messe in discussione. Eppure basta scorrere i nomi dei candidati per avere un quadro molto chiaro della situazione. Lasciamo (per ora) da parte le liste: lì è la legge a stabilire che, per i Comuni con più di 3mila abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai 2\3 dei candidati ammessi. Prendiamo allora chi aspira a diventare primo cittadino o prima cittadina e consideriamo, per scremare, i candidati delle 20 città principali (capoluoghi di provincia o Regione). Ebbene non solo su 162 candidati, solo 30 sono donne, ma nella maggior parte dei casi si tratta di candidate di partiti minori. I 5 stelle, formazione relativamente giovane, va in direzione opposta: si presenta in 18 dei 20 Comuni considerati, ma ha 7 candidate sindache. E tre di queste corrono nelle competizioni più importanti di questa tornata elettorale: Valentina Sganga a Torino, Virginia Raggi a Roma e Layla Pavone a Milano. Le altre si presentano a Cosenza (Bianca Rende), Rimini (Gloria Lisi), Trieste (Alessandra Richetti) e Salerno (Elisabetta Barone). Paradossalmente il M5s candida uomini nei 7 Comuni dove va in coalizione con il Pd e sostiene nomi espressione del centrosinistra. Insomma il partito che era nato come anti-sistema conferma, almeno a livello amministrativo, il tentativo di cercare un’equa rappresentanza: una volontà che, dopo essere entrati in Parlamento, si è più volte incrinata (il leader M5s è un uomo e lo sono molti degli esponenti dei vertici), ma che al momento delle candidature per le amministrative è stata largamente incoraggiata. Se dai 5 stelle arriva un segnale, sugli altri fronti nulla si muove e nulla cambia. Escludendo appunto Benevento, dove Fdi e Lega hanno puntato su Rosetta De Stasio, o Carbonia dove hanno puntato su Daniela Garau, negli altri centri hanno scelto sempre uomini. Allora chi ha candidato le donne? Potere al popolo, partito di sinistra, ne sostiene quattro: Marta Collot a Bologna, l’ex assessora di De Magistris Alessandra Clemente a Napoli, Elisabetta Canitano a Roma, Bianca Tedone a Milano. Poi Italexit sostiene Veronica Verlicchi a Ravenna; Sinistra Unita candida l’ex M5s Dora Palumbo a Bologna e Tiziana Cimolino a Trieste con i Verdi; nella Capitale il Partito Comunista schiera Micaela Quintavalle e il Partito Comunista Italiano Cristina Cirillo. Corre per il Partito Comunista a Torino Greta Giusi Di Cristina. Seguono candidate di varie liste civiche, nessuna delle quali è sostenuta dai principali partiti politici nazionali (né di destra, né di sinistra): Anna Maria Minotti e Simona Scocozza a Salerno; Fabiola Cenciotti, Margherita Corrado e Monica Lozzi a Roma; Caterina Cazzato a Varese; Annalisa Muzio e Nicoletta Zuliani a Latina; Rossella Solombrino a Napoli; Anna Ciriani a Pordenone; Aurora Marconi a Trieste. Segnatevi i nomi perché, di molte di loro, a fatica sentirete parlare dopo il primo turno elettorale.

Un passo indietro – Non che le cose andassero molto meglio prima. Nei 20 Comuni in questione, le sindache uscenti erano solo cinque sul totale (Carbonia, Cosenza, Savona, Roma e Torino). Ma se già i numeri erano risicati, il rischio concreto ora è che, dopo la prossima tornata, lo diventino ancora di più: in nessuna delle 20 città ci sono candidate favorite. Due centri importanti come Roma e Torino escono da due amministrazioni di sindache M5s (Appendino e Raggi), ma in entrambi i casi la coalizione giallorossa si è spaccata: i 5 stelle ricandidano due donne, ma non saranno sostenute dal Pd e di fatto saranno meno competitive. Per il Partito democratico il tasto è dolente: il primo atto di Enrico Letta segretario è stato sostituire i capigruppo uomini in Parlamento per dare un segnale di equa rappresentanza (così disse). Ma per intervenire sulle candidature alle amministrative era troppo tardi e si è ritrovato con un palmares di sole giacche e cravatte in tutte le sfide principali. Ma come stanno le amministrazioni? Secondo l’ultimo report di Anci, sono 2.721 su 7.753 i Comuni che sono stati amministrati negli ultimi 30 anni almeno una volta da una sindaca. Se si guardano la Regioni, le più numerose sono state in Lombardia. Seguono: Piemonte; Veneto; Emilia Romagna; Sardegna e Toscana. Attualmente vi sono in carica il 15% di sindache (1167), contro l’85% di sindaci (6586). Rispetto al 2019 c’era stato un lieve miglioramento (+0,6), che però rischia di non essere riconfermato. Al tempo stesso però, sono aumentate le assessore (44%, +1 rispetto all’anno precedente), ma 1\3 di queste sono impegnate su temi relativi a “casa, famiglia, scuola e politiche sociali”. Solo l’11% si occupa di temi non considerati femminili come “innovazione, decentramento e risorse”.

Perché – Chi non è sorpresa è la professoressa Fatima Farina, docente di Sociologia economica e di genere all’Università di Urbino (leggi qui l’intervista completa). Durante la pandemia, dice, “le donne sono state completamente messe al margine nel dibattito pubblico“. Ora le mancate candidatura sono “l’ennesimo campanello d’allarme”. Di fatto, dice, “c’è stata una chiusura dello spazio pubblico e della visibilità”, con una serie di uomini che hanno detto “gestiamo noi la situazione” e in tutti i comparti. E tra gli effetti c’è anche la diminuzione della partecipazione a livello locale, ma il problema è strutturale. “Le regole per le pari opportunità ci sono e la loro applicazione ha portato risultati. Ma questa parità di fatto, non arriva poi a mettere in atto degli strumenti redistributivi e soprattutto a considerare le condizioni reali di partenza delle donne”. Cioè la competizione è formalmente aperta a tutti, ma tutti non hanno gli stessi strumenti per partecipare. Il discorso che si è formulato nel post pandemia parla “dell’importanza della parità di genere, ma non di equità e uguaglianza” ovvero di “scardinare il sistema dominante”. Anzi l’unica strada proposta è “far sì che le donne si adeguino al sistema per partecipare”. Il fatto è che, secondo Farina, “le donne non si avvicinano ai partiti perché i partiti non le vogliono. Sono gestiti da maschi e così vogliono continuare a essere”. E su questo, “a sinistra c’è stata una vera e propria resa“. A destra invece, la partecipazione delle donne ha permesso di ripresentarsi come nuovi agli elettori e si è colta l’opportunità. Ma non basta per cambiare le cose. “Se si guarda anche al governo Draghi, abbiamo più donne, ma molto meno un’agenda che si rivolge e prende in considerazione le questioni di genere“.

Come si cambia – Per avere un effettivo cambio servono piani di redistribuzione dei lavori di cura, pubblica e privata, serve lavorare su strumenti concreti come i congedi di paternità. Altrimenti il sistema della politica continua a essere strutturato solo sui tempi degli uomini e terrà fuori sempre le donne. Poi c’è l’aspetto culturale. Su questo sta lavorando W20, il gruppo di esperte italiane focalizzato sull’uguaglianza di genere nel periodo di presidenza italiana del G20. “Stiamo lavorando per la revisione dei libri di scuola e proporremo un elenco di 100 donne che mancano nei testi”, spiega la capa delegazione Elvira Marasco. “Perché le donne vengono citate quando si parla di storia solo se sono state assassine o prostitute. Il cambiamento e la lotta agli stereotipi devono partire anche dalle scuole”. Ma, chiude, “la strada è ancora lunga. Lo dimostra la politica, dove ci costringono da sempre a fare le portatrici d’acqua”. E se il cambiamento parte dal basso, un’altra delle chiavi è capire come cambia la partecipazione politica a livello giovanile. Lo hanno studiato Sofia Ammassari, Marco Valbruzzi e Duncan McDonnell in uno studio comparativo nelle giovanili di partito: “Per l’Italia abbiamo seguito i Giovani democratici e Forza Italia giovani”, spiega Ammassari. E il gender gap è evidente in entrambi i casi, ma molto più netto a sinistra: il 39% delle giovani dem dice che vuole candidarsi contro il 62,8% dei colleghi maschi. Uno scarto che migliora, ma non sparisce dopo un anno di militanza (61 vs 73%). In casa Fi, dove la struttura è meno capillare e più funzionale alle candidature, “l’82% delle donne ammette che è iscritto per candidarsi contro l’84% degli uomini”. Quindi anche dove si mobilitano quasi solo per le elezioni, esiste uno scarto. Una situazione simile avviene in Spagna, ma anche in Australia. Perché? “I partiti continuano a perpetuare l’immagine di un mondo maschile”, conclude Ammassari, “con candidature femminili sempre in posizioni penalizzanti e decisioni che si prendono la sera tardi, magari all’ora dell’aperitivo quando molte donne devono essere a casa”. Lo dicono i ricercatori, lo rendono ancora più evidente i dati: tra donne e politica è come se ci fosse un muro e al momento sembra ancora impossibile valicarlo.

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