Dopo quattro anni, l’inedita alleanza tra destra e sinistra verde della premier Katrin Jakobsdottir potrebbe non tornare a governare l’Islanda. La coalizione è stata solo la seconda dal 2008 ad arrivare a fine mandato, in un Paese in cui ripetuti scandali hanno mandato i cittadini alle urne per ben 5 volte in 10 anni, ma una concorrenza sempre più agguerrita e un panorama politico molto frammentario potrebbero non riconfermarne la maggioranza al voto di oggi. Se però dovesse uscire una netta supremazia della sinistra, si potrebbe sperare in un’accelerata sull’ambiente e sul welfare.
Sono circa 255mila su 370mila gli islandesi che oggi si sono recati ai seggi, un quinto di loro invece ha già votato per corrispondenza. Come si aspettavano gli analisti, gli exit poll hanno restituito un quadro molto diviso, in cui nessuno è predominante: su dieci dei partiti che si sono presentati alle elezioni, nove hanno la possibilità di superare lo sbarramento del 5% ed entrare nell’Alþingi, uno dei più antichi parlamenti al mondo. In palio ci sono 63 seggi e per governare ne servono almeno 32. Nel 2017 33 di questi erano stati divisi in una maggioranza larga, tra il partito del Progresso di Sigurour Ingi Johannsson, il Partito dell’Indipendenza e il movimento Sinistra-Verdi di Jakobsdottir, che con il suo 17% aveva strappato la leadership. Quei numeri però oggi sono lontani: sebbene una buona metà degli islandesi apprezzerebbe un secondo mandato dell’attuale premier, il suo partito è apprezzato solo dal 10-12% della popolazione.
Non va tanto meglio al Partito dell’Indipendenza – di centrodestra – che dovrebbe avere tra il 20 e il 24% dei voti, ma, anche se rimanesse il più grande partito politico, perderebbe comunque seggi. Il suo leader, il ministro delle Finanze Bjarni Benediktsson, proviene da una delle famiglie più potenti dell’isola, ne è stato alla guida prima del 2017 ed è sopravvissuto a numerosi scandali politici: il suo conto offshore era tra quelli rivelati nello scandalo Panama Papers. Ora si presenta alle elezioni per la quinta volta e punta di nuovo alla carica di primo ministro, con l’intenzione di ribaltare gli equilibri della precedente coalizione. Poco dietro di lui nei sondaggi c’è però una schiera di altri partiti al 10-15%: il Partito progressista, l’Alleanza socialdemocratica, il Partito riformatore di centrodestra. Dovrebbe ottenere buoni risultati anche il partito Pirata libertario: già insidioso nella scorsa tornata, oggi con il suo 8% mira a proporre una nuova Costituzione incentrata sulla democrazia diretta. Il gruppo da cui ci si aspetta una forte dimostrazione di forza sono però i Socialisti. Trascinati dal ricco e controverso editore Gunnar Smári Egilsson, attualmente siedono solo al Consiglio comunale di Reykjavík, ma la loro rappresentanza crescerà: secondo alcuni sondaggi, dopo aver incentrato la loro campagna su una retorica anti-Verdi, potrebbero ottenere almeno 4 seggi in parlamento. Per altri Jakobsdottir tornerà al governo, ma con numeri risicatissimi.
Durante la campagna, la premier uscente ha preferito non attaccare i componenti della coalizione. Ha puntato piuttosto sui risultati ottenuti durante il suo mandato: ha introdotto un sistema progressivo di imposta sul reddito, aumentato il budget per l’edilizia sociale e esteso il congedo parentale per entrambi i genitori. Tra i suoi meriti anche l’efficienza nel contenimento della pandemia – solo 33 morti – e della campagna vaccinale, ormai arrivata all‘87% della popolazione immunizzata, anche se non sono mancati i compromessi, per portare pace nella coalizione. Il maggiore è stata sicuramente la rinuncia a creare un parco nazionale nell’Islanda centrale, per proteggere i suoi 32 sistemi vulcanici attivi e 400 ghiacciai.
Eppure l’ambiente e il cambiamento climatico sono due delle questioni che stanno più a cuore agli abitanti della “Terra del fuoco e del ghiaccio“. L’Islanda si è già impegnata a raggiungere la carbon neutrality entro il 2040 – prima della maggior parte delle altre nazioni europee – ed è il primo paese al mondo con la quasi totalità di energia prodotta da fonti rinnovabili (80% idroelettrico, 20% geotermico). Però soprattutto gli elettori più giovani stanno spingendo per passi ancora più audaci, che solo una coalizione interamente di sinistra – secondo molti – consentirebbe. Tra le istanze dei socialisti ci sono anche la riduzione della settimana lavorativa e la nazionalizzazione dell’industria della pesca, oltre il sostegno alla richiesta – degli altri partiti – di maggiori fondi per la sanità pubblica. Nell’anno della pandemia, il tema è particolarmente sentito. Il calo dei contagi ha poi da poco permesso la riapertura dei confini, attirando circa 2 milioni di visitatori fondamentali per l’economia locale: il turismo, cresciuto progressivamente negli ultimi 15 anni, garantisce oltre il 30% del Pil dell’isola. Questo, nonostante la recessione, fa ben sperare gli islandesi: la maggior parte di loro dichiara infatti di essere ottimista riguardo alle prospettive future. Le tensioni internazionali riportano poi un dubbio di lunga data in Islanda, l’adesione all’Unione europea. Al momento infatti l’unico esercito e strumento di difesa dello Stato – che non ha forze armate, ma solo una Polizia – è quello della Nato.