I partiti e “le barriere” all’ingresso per le donne. La “resa della sinistra” sulle questioni di genere e il “campanello d’allarme” delle quasi inesistenti candidature femminili per le prossime amministrative. “La scia è regressiva”, sostiene Fatima Farina, ricercatrice presso l’Università di Urbino dove insegna “Sociologia economica e del lavoro e di genere e partecipazione sociale” e autrice del libro in uscita il 14 ottobre “Siamo in guerra” (Mimesis). E proprio con la scusa del “siamo in guerra”, durante la pandemia, le donne “sono state messe al margine del dibattito pubblico”. Assistiamo a una “retorica” di governo che nomina continuamente la parità, Mario Draghi per primo, ma che “non ha mai messo in discussione davvero le regole e le relazioni”. E questo perché, al di là delle elette, si è “svuotata l’agenda di genere della politica”.

Anno 2021, tante promesse e poi in Italia ci troviamo con 30 candidate sindache su 162?
Non mi stupisce purtroppo. Non dimentichiamo che le donne, durante la pandemia, sono state completamente messe al margine nel dibattito pubblico: abbiamo visto la proclamazione di uno stato di guerra continuo e solo politici ed esperti maschi sulla scena principale. Tanto che le donne si sono dovute costituire in un un movimento per chiedere “dateci voce”. Lo spazio pubblico e la visibilità per le donne si sono ridotti. Ma non solo in Italia. Penso all’Ungheria e alla Polonia. La Turchia è addirittura uscita dalla convenzione di Istanbul. Storicamente sappiamo che nelle pandemie c’è una crescita dell’autoritarismo e questo avviene anche nelle relazioni tra i sessi.

E i partiti che ruolo hanno?
I partiti sono ben organizzati per mettere ai margini le donne. Lo abbiamo visto alle ultime politiche 2018 con il dispositivo plurinominale che ha favorito più candidature e meno elette. Le donne diventano il mezzo per presentarsi al pubblico in un modo più amichevole e prendere voti. E’ preoccupante che questo sia arrivato anche a livello locale dove di fatto, negli ultimi anni, le donne hanno avuto più spazi. Soprattutto nei Comuni e meno nelle Regioni, ancora un territorio di assoluto predominio maschile. Ma c’è una scia perfino regressiva.

Eppure di parità sentiamo molto parlare.
Il discorso che si è formulato nel post pandemia parla dell’importanza della parità, ma non di equità e uguaglianza di genere. Guardiamo il discorso del presidente del Consiglio quando ha chiesto la prima fiducia in Senato: ha detto che la parità è importante perché le donne devono acquisire le competenze necessarie per poter fare carriera. Quindi la logica è: “Ci servono le donne, adeguatevi ai parametri che ci sono”. Ma questo non vuol dire scardinare il sistema dominante.

Cioè non si danno gli stessi strumenti a tutti per garantire uguale partecipazione?
Noi abbiamo una normativa sulle pari opportunità e l’applicazione ha portato risultati. Ma questa parità di fatto, non arriva poi a mettere in atto degli strumenti redistributivi, a considerare le condizioni reali e di partenza delle donne. Se il sistema rimane lo stesso come fanno le donne a partecipare? L’unico meccanismo proposto è far sì che le donne si adeguino al sistema. In questa retorica dominante, la parità viene nominata continuamente. Ma stiamo parlando sempre della stessa cosa e non di mettere in discussione le regole, le relazioni.

Siamo destinati all’immobilismo totale?
Le donne non si avvicinano ai partiti perché i partiti sostanzialmente non le vogliono. Quindi certamente ci vuole un’attivazione delle donne perché si creino degli spazi di maggiore consapevolezza, ma ci vuole anche un cambio di mentalità della politica. Serve un pochino di sincerità. Siamo in un Paese in cui non nasce nessuno (perché se le donne non lavorano, non vogliono fare i figli giustamente), e l’unica questione che si mette nell’agenda sono gli asili nido. Per permettere alle donne di partecipare. A cosa? A un mondo del lavoro che è indecente. Perché le posizioni delle donne sono quelle precarie, a basso reddito, discontinue, ricattabili.

Ci fa un esempio concreto per sbloccare la situazione?
Penso alla questione vergognosa dei congedi parentali. E’ persino inapplicata in tutta la pubblica amministrazione per mancanza di decreti attuativi. Attuativi di cosa? Stiamo parlando di dieci giorni di permesso. Dieci giorni. Dobbiamo rilavorare sulla redistribuzione pubblica e privata di genere, ad esempio incentivando un sistema della cura condivisa. Anche perché abbiamo visto con la pandemia che della cura abbiamo bisogno tutti. E non la devono reggere solo le donne che così stanno a casa e ci costano zero. Bisogna cambiare completamente visione.

Se ci sono le norme per la parità e le donne comunque restano fuori, c’è chi obietta che non sono abbastanza brave.
Basta guardare i dati: sappiamo da diversi anni ormai che le donne studiano di più e in tutti i gradi di istruzione i loro percorsi sono qualitativamente superiori a quelli dei maschi. Si inverte la questione quando si entra nel mercato del lavoro, quindi c’è qualcosa che non va. Le donne non sono poche neanche anagraficamente. Ma se andiamo a vedere come i partiti si organizzano e come usano i finanziamenti per incentivare le pari opportunità, vediamo benissimo che sono gestiti da maschi e vogliono continuare a esserlo. Mettono barriere all’ingresso. La politica è strutturata su un parametro maschile, su tempi maschili. E poi preferiscono i propri simili. Sia nell’organizzazione, sia nei programmi e nelle questioni che si affrontano. Salvo poi assegnare gli assessorati ai servizi sociali o i ministeri senza portafoglio e vantarsi di avere governi con la parità di genere. Come ad esempio fece Matteo Renzi.

Qualcuno che candida le donne però c’è. Il M5s, ad esempio. Ma anche a destra più che a sinistra. Perché questa differenze?
A sinistra c’è stata proprio una resa, ci si è fermati: con le norme per le pari opportunità si è insediato una sorta di femminismo di Stato e c’è stata una delega agli apparati amministrativi. Però questa non è politica. Poi la sinistra è diventata meno di sinistra: i partiti si sono spostati verso il centro, i temi di rivendicazione sono diventati un po’ troppo “femministi”. A destra non c’è questo peso, non c’è questa eredità. E le nuove regole hanno dato la possibilità di ampliare lo spazio di partecipazione e presentarsi in modo diverso sulla scena politica. Giorgia Meloni risponde benissimo a questo profilo. Ma anche Elisabetta Casellati, prima presidente del Senato. Sono partiti che vanno avanti, che assomigliano di più alla gente.

Quindi ci sono partiti che vanno avanti sulla rappresentanza di genere?
Vanno avanti per quanto riguarda i numeri, ma si è svuotata l’agenda di genere e sono sparite le istanze rivendicative. Vale anche per il governo Draghi: abbiamo più donne, ma quelle nominate lavorano in continuità per la “conservazione” e fanno un certo tipo di politica: si occupano di famiglia, istruzione, politiche sociali.

Ma non c’è una spinta delle nuove generazioni verso una sempre maggiore partecipazione delle donne?
Io tutti questi movimenti non li vedo. Anche i giovani vanno sempre più a destra. Troppi anni fa abbiamo interrotto una discussione e lo abbiamo fatto anche perché in questo Paese ha prevalso un tipo di femminismo che ha deciso di stare fuori dai luoghi del potere. Lo scudo è dire che la parità c’è, perché ci sono le regole. Ma si applica la parità formale e poi si aggira la norma. Quello che si continua a chiedere alle donne è che si partecipi, che siano “impegnate e felici”. Ma senza cambiare niente.

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