Simona di Vietri ha deciso di lasciarsi alle spalle la professione in finanza per aprire ‘La Latteria’, un’azienda che produce formaggi freschi e ‘mozzarelle made in London’. Con l’avvio della Brexit che rende molto più complesso importare prodotti dall’Europa e in un momento in cui i consumatori stanno adottando la filosofia del chilometro zero, la sua intuizione è stata acuta. Dopo due anni di pandemia, il suo business sarebbe pronto a decollare ma l’attuale situazione per gli approvvigionamenti ha cambiato i piani dell’imprenditrice italiana.
Che impatto sta avendo la Brexit sull’attività del suo caseificio?
La Latteria è stata fondata prima che fossero evidenti le conseguenze della Brexit su dinamiche globalizzate. Brexit sarebbe dovuta essere una spinta ulteriore per la crescita della nostra azienda perché ha creato una sorta di isolamento dall’Europa e l’idea del governo è quella di ricentralizzare sul ‘locally made’. All’inizio non abbiamo sentito l’effetto Brexit perché il Covid ha distratto l’attenzione sulle sue conseguenze, così fino a giugno è andata bene. Sapevamo che sarebbero stati introdotti controlli alle frontiere, più burocrazie e tempi di importazione più lunghi, le aziende di trasporto tra Italia e Inghilterra erano preparatissime. Quello che invece ha creato problemi è stato trovarsi all’improvviso il blocco sulla circolazione delle persone. L’economia reale britannica è sempre stata basata su un fulcro di lavoratori europei che con la pandemia sono stati licenziati dalle aziende e sono andati via. E poi hanno avuto problemi a rientrare. Per l’esperienza mia e delle aziende con cui sono in contatto, pochissimi sono potuti tornare in Inghilterra.
Quali sono le maggiori difficoltà per un’impresa italiana in Regno Unito adesso?
Io sono rappresentativa di uno strato di piccole e medie aziende colpite da due anni di Covid e a cui adesso viene richiesto di sponsorizzare personale che non ha uno status di residenza. È un processo complicatissimo dal punto di vista delle burocrazie ma anche una follia in termini di costi. Un contratto minimo per questi lavoratori parte da 26mila sterline, che è una cifra esorbitante se si parla, ad esempio, di personale non qualificato. Ad aziende come me il governo richiede di pagare quote di sponsorizzazione che si aggirano attorno alle 1.800 sterline annuali per persona (da moltiplicare se il lavoratore ha moglie o figli) e la somma va pagata in anticipo per un periodo di 3 o 5 anni. Se poi l’impiegato decide di andarsene dopo 3 mesi, perché magari non si trova bene nel Paese, non è possibile recuperare i fondi versati.
Il sistema di immigrazione britannico è ispirato a quello australiano, a punti. Come va con il requisito della lingua inglese per gli italiani?
Io ho una grande positività ed entusiasmo, vedo opportunità e sono disposta a investire nel business però trovo che ci siano barriere inopportune oltre a costi non necessari. Imporre un criterio di conoscenza della lingua su 4 categorie va al di là del minimo necessario ad integrarsi. Gran parte delle persone che arrivano dall’Italia vengono a fare lavori artigianali o manuali e non si può chiedere a casari, muratori o macellai di avere la stessa conoscenza dell’inglese di un chirurgo o un finanziere. Hanno fatto di tutta un’erba un fascio e creato muri perché questi lavoratori non possono smettere di lavorare e studiare inglese almeno per un anno per passare l’esame e ottenere il visto. Non c’è collegamento tra diritto di immigrazione e la realtà.
Il governo britannico sta puntando alla formazione di personale britannico, è una missione possibile?
Ci sono professionalità che si possono insegnare in tempi ragionevoli, però bisogna considerare la volontà che ha la gente locale di fare questi lavori. Nei settori della ristorazione, della manifattura o per i camionisti per esempio non c’è un sostrato sufficiente a soddisfare la richiesta di lavoro perché gli inglesi non hanno interesse a fare questo tipo di mansioni. Io ho un’azienda tecnica che fa formaggi freschi e la professionalità del casaro, questa figura artigianale un po’ mitica e in via di estinzione perché il lavoro è duro, è difficile da trovare in loco. Gli inglesi non hanno interesse a imparare perché non hanno idea di cosa sia un casaro, e poi per perfezionarsi ci vuole molto tempo. Il mio business è stato colpito da due anni di pandemia e ora che l’economia sta ripartendo e le potenzialità stanno ritornando io mi trovo nella posizione straziante di non poter crescere perché non ho personale.
Cosa sta pensando di fare?
Stiamo cercando di reclutare persone in loco che possano acquisire un minimo di competenze, ma siamo consci che le tempistiche sono lunghissime e quindi dobbiamo fare un ridimensionamento delle nostre prospettive di crescita, mettere limiti alla produzione, mandare via nuovi clienti. Noi aziende locali potremmo fare da toppa ai buchi che si stanno creando con i ritardi all’importazione di prodotti dall’Europa e gli scaffali vuoti, se avessimo personale in grado di sostenere la nostra crescita. Ma non ci sono. Così la merce non entra, e noi non possiamo aiutare l’economia a ripartire. Il danno è doppio.
Che sostegno possono dare le istituzioni italiane?
La situazione si può solo risolvere a livello politico. Il governo inglese per qualche motivo, per orgoglio o per il non voler ammettere i propri errori di calcolo, sta continuando sulla sua traiettoria. Abbiamo bisogno di una pressione a livello politico, ma questa non può essere esercitata in maniera singola, dalla nostra Camera di Commercio o dall’Ice per esempio. C’é bisogno di un coordinamento a livello europeo, per spingere un allentamento di queste barriere alla circolazione delle persone. Credo sia nell’interesse di tutti, l’Inghilterra ha sempre rappresentato un mercato di approdo per moltissimi lavoratori europei e se fino ad ora era è stata l’economia più larga d’Europa, a breve potrebbe non esserlo più. I sostenitori di Brexit devono decidere se favorire l’economia locale o continuare a distruggere le aziende che cercano di produrre in loco, perché non si può avere entrambe le cose.