Dove va la Germania? O meglio, dove va l’Europa? Il Vecchio Continente attende il voto di oltre 60 milioni di tedeschi per cominciare a capire quale direzione prenderà Berlino nell’era post-Merkel. Dopo la chiusura delle urne, alle ore 18 di domenica 26 settembre, i primi exit poll diranno se ci sarà un vincitore netto tra Olaf Scholz e Armin Laschet, quale peso avranno i Verdi e i liberali di Fdp. Il voto servirà a determinare i rapporti di forza tra i vari partiti, la base per le trattative che porteranno alla formazione del prossimo governo. La stampa tedesca si è già sbizzarrita nel ribattezza tutte le possibili combinazioni: si va dalla coalizione Kenya a quella Giamaica, dalla Germania alla Ampel (semaforo). La questione però è tremendamente seria, perché dalla composizione del prossimo governo tedesco dipenderà l’orientamento dell’Unione europea almeno nel prossimo lustro. Innanzitutto sulla revisione del patto di Stabilità, l’argomento più impellente ma allo stesso tempo più delicato a Bruxelles. Ma anche sulle politiche ambientali e sulla transizione energetica. Senza dimenticare le tematiche che più hanno animato la campagna elettorale, questioni interne che però finiranno inevitabilmente per influenzare anche il resto d’Europa: la politica fiscale, il salario minimo, la questione sicurezza. Al momento, l’unica certezza riguarda ancora una volta Angela Merkel: le trattative saranno lunghe e la cancelliera della Germania dal 22 novembre 2015 dovrà aspettare ancora almeno qualche mese prima di lasciare il posto al suo successore. Poi la sua epoca potrà dirsi veramente conclusa.
Negli ultimi 16 anni le elezioni tedesche non erano mai state così attese, perché la vittoria di Merkel non era mai stata veramente in discussione. Il primo effetto collaterale del suo lungo dominio è una Germania senza più padroni, con un panorama politico frammentato e un’incertezza assoluta sulle prospettive future. L’ultimo sondaggio (istituto Insa) confermava la Spd di Scholz primo partito al 25%, con la Cdu-Csu di Laschet in recupero al 22% (tre punti di differenza, con un margine di errore del 2,5%). I Verdi di Annalena Baerbock sono stimati al 17%, i liberali di Christian Lindner all’11% come la destra di AfD e la Linke al 6%. Vista l’incertezza, nell’ultima settimana la cancelliera ha deciso di scendere in campo, partecipando a Stralsund ad un comizio elettorale di Laschet, l’uomo che “potrà garantire il benessere della Germania anche per i prossimi anni”. Ma anche facendo campagna elettorale a modo suo, come giovedì mattina quando si è presentato al mercato di Greifswald (suo collegio elettorale) e ha chiacchierato con una fioraia: “Volevo dire ancora una volta ‘arrivederci‘ (in italiano)”.
Tutti i sondaggi segnalavano che almeno un elettore su tre a una settimana dalle elezioni non aveva ancora deciso per chi votare. È un altro effetto dell’era Merkel, spesso accusata dai suoi critici di aver incentivato la smobilitazione elettorale per conservare il suo consenso. L’altro lato della medaglia è la fatica dei tedeschi a trovare un erede della loro cancelliera. Un vuoto di potere avvertito anche in Europa, dove ora ci si chiede quale volto e soprattutto quale idee avrà il suo successore. Che sia Scholz o Laschet, il nuovo cancelliere avrà la capacità di imporsi subito come leader anche a Bruxelles? Merkel, con la sua ossessione per la ricerca del compromesso, ha rappresentato per più di un decennio l’ago della bilancia tra le posizioni dei Paesi del Nord e del Sud. Da una parte portavoce delle istanze dei frugali, dall’altra garante della solidità dell’Unione: ha sempre tenuto una sua personale linea, adattandola allo status quo politico e alle esigenze congiunturali.
Senza Merkel, la Germania dovrà presto giocare un ruolo da protagonista su due temi cruciali in Europa: l’austerità e il clima. Senza Merkel, l’esito del voto e le trattative per la formazione del governo diventano determinanti per capire quale sarà l’orientamento tedesco. Dalle urne uscirà certamente un Paese meno conservatore, ma l’annunciato “scivolamento a sinistra” non è detto si traduca in una Germania più aperta alle istanze di Paesi come l’Italia. I Verdi sono certamente (insieme a Die Linke, che però pare marginale) il partito che più spinge per rivedere il patto di Stabilità, tanto da chiedere perfino l’addio allo Schwarze Null (il pareggio di bilancio) in patria. Ipotesi sulla quale la stessa Spd ha subito frenato, ricordando che lo Schuldenbremse (il freno all’indebitamento) è stato inserito in Costituzione. Per toglierlo, quindi, servirebbero i voti di Cdu/Csu e liberali, due partiti che invece considerano la sospensione del patto di Stabilità fino al 2023 come una parentesi: finita la pandemia, deve tornare il tempo del rigore. Il programma dei socialdemocratici prevede che il Next Generation Eu diventi uno strumento finanziario permanente fondato su un debito comune europeo. Ma Scholz, l’uomo che dal ministero delle Finanze ha spinto per il varo del Recovery Fund anti-Covid, non ha avuto il coraggio e la forza di fare della revisione dei paletti di Maastricht un tema da campagna elettorale. Di fatto, quindi, tutto dipenderà dagli equilibri all’interno del prossimo governo.
Nel caso di una coalizione Kenya (con dentro Spd, Cdu e Verdi), la posizione di chi vuole rivedere quanto meno i regolamenti Ue – come le procedure di rientro dal debito – diventerebbe maggioritaria. Lo stesso scenario si materializzerebbe in una coalizione semaforo, con la Fdp al posto della Cdu. In entrambe le ipotesi, uno dei tre partner di governo tirerebbe comunque sempre il freno a mano sulla flessibilità. Non succederebbe nel caso di un’alleanza tutta a sinistra tra Spd, Verdi e Die Linke (rot-rot-grüne), che però al momento appare un’ipotesi remota. Le altre opzioni sono la coalizione Deutschland (Spd, Cdu e Fdp), in cui le posizioni socialdemocratiche sarebbero in minoranza (e a festeggiare sarebbero i frugali), oppure la Giamaica, con i Verdi al posto della Spd e allo stesso modo schiacciati tra conservatori e liberali. Insomma, l’Europa è avvista: la revisione del patto di stabilità non sarà una passeggiata. Anche se le ipotesi di coalizioni valgono solo sulla carta, perché nella realtà l’asse Spd-Verdi e quello Cdu-Fdp hanno ad oggi posizioni inconciliabili, non solo su Europa e austerità.
Un altro tema divisivo è l’ambiente. Una delle ultime iniziative della Grosse Koalition a guida Merkel è stata la legge sulla protezione del clima, che ha sancito per la Germania l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2045. Cdu e Fdp sono contro l’introduzione di termini più stringenti e in generale restano fedelmente schierati al fianco delle industrie: “Contiamo sulla fiducia nelle persone, sulla libertà invece che sul paternalismo”, scrive l’Unione nel suo programma elettorale. Mentre i liberali restano fieramente contrari al divieto di circolazione per le auto diesel e alla promozione dell’energia eolica e solare. La Spd invece punta ad aumentare la rete elettrica e a investire proprio sulle energie alternative per completare la transizione entro il 2045. Scholz ha promesso 50 miliardi all’anno per incentivare i privati alla riconversione. I Verdi hanno ovviamente gli obiettivi più ambiziosi: entro il 2030 riduzione delle emissioni del 70%, uscita dal carbone e stop alle auto con motore a scoppio. Per raggiungerli, propongono anche un piano decennale da 500 miliardi di euro che permetta alla Germania di accelerare la transizione energetica.
Il partito ambientalista vuole finanziare il maxi-piano anche tramite l’aumento delle tasse sui redditi più alti, l’introduzione di una digital tax e il ritorno di una patrimoniale. Altro tema che spacca i due poli. I socialdemocratici su questo fronte non si sono nascosti: propongono una riforma dell’imposta sul reddito (l’Irpef italiana) che abbassi le aliquote per i guadagni medio-bassi e al contrario preveda un aumento per il 5% più ricco della popolazione. Inoltre, Scholz ha rilanciato la patrimoniale inserita nel programma elettorale della Spd: un’imposta dell’1% sui patrimoni “molto elevati”. Il candidato Spd ha inoltre bollato come “immorali” le proposte di Cdu e Fdp, che presentano una ricetta opposta. Sia conservatori che liberali promettono un abbassamento generalizzato delle tasse, con un particolare riguardo alle aziende, per la quali l’aliquota massima verrebbe fissata al 25%. Ma l’Fdp ha proposto anche una revisione dell’imposta sul reddito, che farebbe scattare il primo scaglione non più a 57mila ma a 90mila euro. Spd e Verdi sono uniti anche nella richiesta di estendere a più categorie di lavoratori il salario minimo, innalzando a 12 euro l’ora rispetto ai 9,60 euro attualmente previsti. Nell’ultimo dibattito televisivo Laschet si è dichiarato fortemente contrario a questa ipotesi, difendendo il valore della contrattazione collettiva, che però al momento non tutela una buona fetta dei lavoratori tedeschi.
Tematiche interne, che però finiranno per influenzare le politiche dell’Unione. Così come la questione sicurezza – legata a doppio filo al tema migranti – più volte cavalcata da Laschet durante la campagna elettorale per tentare di riportare nella Cdu almeno una parte degli elettori rubati dall’AfD. Fra tutti, è forse il tema meno divisivo. Sugli altri, invece, servirà una faticosa ricerca di un punto d’equilibrio, tramite l’ormai noto contratto di governo che i partiti tedeschi impiegano anche mesi per stilare, ma poi diventa davvero il faro dell’azione dell’esecutivo. A Bruxelles sperano che le trattative non vadano oltre l’autunno: Ursula von der Leyen, che fa parte della Cdu, ha promesso che a breve la Commissione presenterà una proposta informale di revisione di “six-pack” e “two-pack”, i regolamenti che discendono dal patto di Stabilità. Prima di avviare una vera discussione, però, serve la voce della Germania: ancora è impossibile prevedere chi parlerà e quali posizioni prenderà.