Contro tutto e tutti, in nome della boxe. Quella che Oleksandr Usyk ha nobilitato con una prestazione di livello supremo, sul ring di Londra, davanti a 62mila persone, nella casa dell’ormai ex campione del mondo dei pesi massimi Anthony Joshua. Sconfitto. Con verdetto unanime (117-112, 116-112, 115-113), senza attenuanti. Perché il pugile ucraino è stato semplicemente superiore. Ha preparato al meglio il match della vita, quello che metteva in palio le cinture Wba, Ibf e Wbo: veloce, sempre mobile sul tronco, mai un punto di riferimento offerto alla strapotenza fisica del campione (più pesante di quasi nove chilogrammi e anche più alto). Ha punto e si è difeso Usyk, in una danza perpetua per tutte le dodici riprese del combattimento nello stadio del Tottenham. Che di fatto riscrive storia, equilibri e scenari della categoria di peso regina. Perché Joshua esce molto ridimensionato dalla batosta tecnico-tattica subita, perché l’incontro del secolo con Tyson Fury (se mai si farà) non avrà più il fascino dell’unificazione delle cinture, perché il nuovo campione dei massimi sarà un avversario durissimo da affrontare per chiunque.

I primi a battere la notizia della sconfitta di Joshua, tuttavia, hanno parlato di clamorosa sorpresa. Lo è fino a un certo punto. E non solo per lo score con cui i due pugili sono arrivati sul ring: 23 vittorie (22 per ko) e una sconfitta per il campione inglese, 18 vittorie e nessuna sconfitta per l’ucraino, fino a un anno fa campione indiscusso dei massimi leggeri e poi salito di categoria per provare a imporsi nell’olimpo del pugilato. Chi conosce Usyk sapeva benissimo che non sarebbe stata una passeggiata per Joshua, perché Usyk è un difensore sublime, un grande incassatore e ha nella velocità e nell’intelligenza tattica le sue doti migliori quando si tratta di attaccare. In pratica ciò che Joshua soffre maledettamente. Lo si era visto sul ring di New York il 2 giugno 2019: ha sottovalutato Andy Ruiz, il messicano lo ha costretto alla figuraccia con aggressività e generosità, ma senza grande tecnica. Da allora Joshua è salito sul ring altre due volte: nella rivincita con Ruiz (vittoria ai punti dopo un combattimento in difesa) e nel facile match contro il bulgaro Pulev (ko alla nona ripresa). Due successi, ma contro avversari nettamente inferiori e al termine di due prestazioni buone, ma non eccellenti. Con queste premesse non era impossibile immaginare le sue difficoltà nell’affrontare un pugile molto tecnico ed esperto come Usyk (34 anni, quasi 32 l’inglese).

Così è stato. Dopo una partenza di studio, Usyk ha iniziato a pungere col jab, a difendersi e a piazzare accelerate col gancio che hanno messo in crisi il campione, che nel terzo round ha rischiato di finire al tappeto a causa di un diretto ben assestato sul mento. Sarà stato lo spavento, fatto sta che Joshua ha ripreso il controllo del match, ma senza mai dare l’impressione di poterlo vincere prima del limite: ha colpito Usyk, gli ha segnato il volto, ma non è mai riuscito a fiaccare il movimento e la strategia dell’ucraino, bravissimo a non scomporsi e a continuare nel progetto di match che aveva studiato per mesi. Nella settima ripresa altro momento topico, con Joshua ancora in difficoltà per la combinazione sferrata da Usyk, che ha definitivamente convinto i giudici nella parte finale della dodicesima e ultima ripresa: una sequenza di colpi impressionanti, Joshua mai al tappeto ma ormai vinto, con lo zigomo destro segnato, senza fiato.

Al gong l’immagine è paradigmatica: Joshua al suo angolo, impotente, con difficoltà a respirare e, forse, a rendersi conto che sì, è successo ancora, ha perso da favorito, questa volta con un pugile forte e non con il semi sconosciuto messicano da fast food. Usyk, dal canto suo, è lucido: si inginocchia, da solo, prega. Poi si alza, ride appena, aspetta in piedi il verdetto come un impiegato che nell’atrio aspetta l’ascensore per andare in ufficio. L’ascensore dell’ucraino, però, porta in paradiso: il nuovo campione dei pesi massimi ride, ma non è l’esultanza di chi ha capito di aver fatto l’impresa della vita. No: è il sorriso della consapevolezza, di chi sa di aver meritato titolo e cinture. Con la classe, con l’esperienza, con il coraggio. Con quella cifra pugilistica che ora irrompe nello scenario della categoria regina, dove il ruolo di Joshua è inevitabilmente ridimensionato.

Certo, nel contratto c’è la clausola della rivincita (che si farà), ma il campione olimpico di Londra 2012 – curiosità: anche Usyk ha vinto l’oro 11 anni fa. L’inglese ha sconfitto Cammarelle nei supermassimi, l’ucraino Clemente Russo nei massimi – non ha più l’aurea del fuoriclasse assoluto. Se quello con Ruiz poteva essere un incidente di percorso dovuto alla sottovalutazione dell’avversario, quella di oggi è una sconfitta diversa, che ha evidenziato come non mai i limiti di Joshua. Che se sorpreso a livello tattico non è in grado di cambiare il match, che non è un grande incassatore, che se sotto pressione psicologica non riesce a scaricare il suo strapotere fisico e i suoi colpi migliori. Sarà un ridimensionamento definitivo? Presto per dirlo, ma il segnale non è buono. Di certo chi credeva che Joshua potesse insidiare i grandissimi della storia della boxe oggi forse sta cambiando idea: il talento divenuto campione assoluto sconfiggendo Volodymyr Klyčko (oggi a bordo ring) il 29 aprile del 2017, cinque anni dopo è costretto a tornare sulla terra per mano (e per testa) di un altro ucraino. Che l’ha battuto meritatamente, a casa sua, davanti alla sua gente. E si è preso le sue cinture. Con merito. In nome di una boxe migliore.

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