Si svolgerà domani, martedì 28 settembre, a Mansoura la seconda udienza del processo iniziato il 14 settembre e aggiornato dopo cinque minuti, nei confronti di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna arrestato il 7 febbraio 2020 al suo rientro in Egitto e da ormai 600 giorni privato della libertà.
Quella sensazione di sollievo provata appena ricevuta, due settimane fa, la notizia dell’aggiornamento – poiché in cinque minuti, per come vanno le cose in Egitto, poteva anche essere emessa una condanna definitiva, giacché il tribunale di emergenza che processa Zaki non prevede appello – si è trasformata nei giorni successivi in un’ondata di ottimismo.
Commentatori ed esponenti politici hanno fatto rilevare che le accuse principali contro Zaki (sovversione e terrorismo) erano decadute – ma non è chiaro se siano state semplicemente congelate – e che dunque non ci sarebbe più il rischio di una condanna a 25 anni di carcere. È stato sostenuto che questa “svolta” sia stata frutto del “silenzio operativo” della diplomazia italiana. È stato fatto riferimento a un’altra “svolta”, quella del presidente egiziano al-Sisi con la sua agenda sui diritti umani.
L’ottimismo deve rimanere, è chiaro. Resta però il pericolo che la magistratura egiziana voglia andare fino in fondo con l’accusa di “diffusione di notizie false” ed emettere una condanna, anche a cinque anni di carcere. Se pure venissero sottratti alla pena i 19 mesi di detenzione in attesa del processo, si tratterebbe sempre di dover trascorrere in prigione tre anni e cinque mesi. Un solo giorno sarebbe già troppo.
Va sottolineato, infine, un amaro paradosso: un tribunale d’emergenza, di quelli istituiti per giudicare imputati di terrorismo di matrice islamista, processa un attivista e ricercatore della minoranza religiosa cristiano-copta.
Paradosso nel paradosso: Zaki avrebbe diffuso “notizie false” attraverso un articolo, scritto nel 2019, in cui raccontava una settimana di ordinaria discriminazione contro i copti. Quelli che avevano esultato per il colpo di stato di al-Sisi del 3 luglio 2013, certi che li avrebbe protetti meglio rispetto a un governo della Fratellanza musulmana. E che sono stati ripagati col carcere e l’inizio di un processo per uno dei loro più brillanti esponenti.