I simboli in politica hanno un significato, possono delineare una carriera o tracciare un percorso pubblico. I luoghi scelti da Carles Puigdemont per fissare il suo “esilio” provvisorio o per partecipare ad eventi politici hanno una forte carica icastica, qualche volta per caso, altre perché frutto di una strategia ponderata. Per evitare il carcere dopo lo scellerato referendum del 1 ottobre 2017 scelse Waterloo, la piccola cittadina immersa nella campagna belga. Sono pochi i luoghi al mondo che hanno pari forza evocativa nel portare alla mente una disfatta. Lo stesso effetto provocato dall’improvvisata consultazione di quel primo ottobre: una sconfitta bruciante per la democrazia. I cui pilastri furono sbriciolati in poche ore dalla risposta di Madrid, muscolare e scomposta, e dalla sfrontatezza della Generalitat. La più alta istituzione catalana pianificò un referendum lontano dai canoni della legalità, con l’obiettivo di perseguire un risultato predefinito: proclamare, in via unilaterale, una nuova repubblica indipendente nel cuore dell’Europa.
Progetto naufragato subito: sprofondato per la reazione della parte produttiva che ha spinto migliaia di imprese a trasferire le proprie sedi fuori della Catalogna e per il mancato appoggio dell’Europa, i catalani, per vocazione europeisti, hanno trovato chiuse tutte le porte della diplomazia di Bruxelles. Troppo rischioso aprire spiragli, seppur piccoli, mentre Madrid istruiva processi che avrebbero portato a pesanti condanne per sedizione. Pene alle quali Puigdemont è riuscito a sfuggire costruendosi un esilio dorato, mentre altri leader indipendentisti, con la schiena più dritta, affrontavano mesi e mesi di dura carcerazione.
Non stupisce che l’ex President abbia voluto affrontare i rischi del Mae, il mandato di arresto europeo, nel posto più “catalano” al di fuori della Catalogna. Alghero ha da sempre lo sguardo puntato verso quel lembo di occidente mantenendo vivissimi legami con lingua e cultura catalana, non a caso a Barcellona la comunità sarda è tra le più integrate. Non possono quindi sorprendere le acclamazioni e i battimani di questi giorni, a scarcerazione avvenuta. Avrà tirato un sospiro di sollievo anche Pedro Sánchez: il premier spagnolo punta tutto sulla distensione aprendo una mesa de diálogo per avviare una trattativa con i partiti indipendentisti i quali, come contropartita, sostengono nel Congresso nazionale la risicata maggioranza di Psoe-Podemos, comunisti inclusi.
Un clima di disgelo che stava evaporando nelle fasi successive all’arresto sulla pista dell’aeroporto di Alghero. Pere Aragonès, attuale President della Generalitat, era già pronto a far saltare il banco: in conferenze stampa – tenute rigorosamente in catalano e in inglese – aveva lasciato intendere come la pressione giudiziaria di Madrid potesse aprire crepe sul fronte delle scelte condivise.
Al centro del dialogo è posta la questione referendaria: cosa votare? E come? Secondo La Moncloa, sede del governo centrale, una riforma costituzionale, col nuovo Estatut autonomo da validare con il passaggio elettorale. Per i separatisti, un secco “sì” o “no” all’indipendenza, e solo su base regionale – ipotesi contraria a norme costituzionali – com’è accaduto in Scozia e in Quebec. Una maggiore autonomia poco interessa ad una larga fetta della società catalana: la regione ha già tutto, gestisce ogni settore, anche la polizia locale, poco altro resta da attribuire o delegare. Spazi di negoziato potrebbero riguardare solo la difesa, il controllo di frontiere e dogane in porti e aeroscali, la politica estera. Ma a quel punto la Catalogna, mutando pelle, diverrebbe di fatto uno Stato indipendente.