Era possibile fare peggio di quanto fatto sinora nella gestione della tormentatissima vicenda Alitalia? La risposta, incredibile visti i precedenti, è affermativa. Ce la sta mettendo tutta e ci sta riuscendo il “governo dei migliori”. Progetto industriale insostenibile, assalto a stipendi e diritti dei dipendenti, stravolgimento delle norme italiane ed europee. C’è un po’ di tutto. Ormai da anni il costo del lavoro ha smesso di essere il problema della compagnia ma nell’operazione si è scelto comunque di accanirsi sui pochi dipendenti rimasti, circa uno su quattro. Non solo imponendo tagli secchi alle retribuzioni ma anche con la decisione di non applicare il contratto collettivo di categoria: prima volta che un’azienda a pieno controllo pubblico compie questo passo. Le assunzioni, ex novo, vengono regolate da un semplice regolamento aziendale, azzerando l’anzianità e l’articolo 18 (che valeva per tutti i contratti pre Jobs Act).
Ai dipendenti viene fatta firmare una liberatoria in cui accettano la cornice giuridica proposta e tutti sono sottoposti ad un periodo di prova di 3 mesi in cui possono essere licenziati senza motivo. Per farlo è stata disposta, con decreto dello scorso 2 settembre, un’apposita deroga all’articolo 2112 del codice civile. Un articolo finalmente modificato nel 1990 dopo diverse sollecitazioni e richiami dell’Unione europea e che dice in sostanza una cosa semplice: in caso di cessione di un’azienda il rapporto di lavoro prosegue con l’acquirente.
“Sono cose mai viste, almeno non dopo il 1800. Quella all’articolo 2112 è una deroga grottesca, in aperto contrasto con le norme e con tante sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia europea. L’ennesimo decreto “ad Alitaliam” che espone Ita ad una valanga di ricorsi“, spiega a Ilfattoquotidiano.it il giuslavorista Piero Panici. “La mia impressione è che chi ha scritto la norma davvero non si rendesse conto di quello che stava facendo. O peggio che ci sia una volontà di far naufragare sul nascere il progetto di nuova compagnia”. Tutta l’operazione Ita-Alitalia è strutturata per dare l’illusione ottica che non si tratti di una cessione di azienda e soddisfare la richiesta di Bruxelles di una discontinuità. E quindi il ricorso camouflage della vendita di “singoli rami”. Ma pur sempre di illusione si tratta, di un livello anche molto scadente secondo Panici. “Non si può giocare con le parole per far finta che non ci sia una continuità aziendale, ci sono sentenze, penso ad esempio a quella sulla compagnia portoghese Tap, che hanno ben chiarito che se si continua a volare non basta dire che si sono acquisiti singoli asset per negare la continuità”.
Lo stesso goffo gioco di prestigio fu peraltro tentato nel 2008 dal governo Berlusconi per la nascita di Cai. E poi ancora il governo Renzi per la seconda cessione di Cai, questa volta ad Etihad. Risultato? Condanne della Corte di Giustizia Ue e della Corte di Cassazione per aver disatteso l’articolo 2112 e le norme europee. Eppure il governo Draghi ci riprova con l’aggravante che mentre nei casi precedenti erano coinvolti uno o più soggetti privati questa volta la partita si gioca tutta all’interno del pubblico. Con situazioni surreali come lo scorno tra Ita e Alitalia sul valore del marchio Alitalia. Marchio che verrà pagato con soldi pubblici che finiranno ad una società pubblica. Intanto la scadenza del 15 ottobre, che dovrebbe segnare il passaggio di testimone da Alitalia ad Ita, vacilla. Alcune prenotazioni di voli state cancellate e posticipate di alcuni giorni e assegnate ad un vettore che ha lo stesso codice (AZ) di Alitalia che per quella data dovrebbe essere già scomparsa. Alla faccia della discontinuità.
La scelta di insistere sul costo del lavoro ha quanto meno un senso da un punto di vista economico? No secondo Ugo Arrigo, economista dell’università Bicocca di Milano, che da anni segue il dossier Alitalia. “Avrebbe un senso se fossimo alle Poste, dove il costo del personale incide per 4/5 di quelli complessivi ma in questo caso l’incidenza è di appena un sesto“, spiega Arrigo che aggiunge “Alitalia ha già il costo unitario del lavoro più basso di tutte le compagnie di bandiera europee. Solo Iberia e Tap hanno valori inferiori ma i dati sono in qualche misura falsati dal personale assunto in Sud America dove le due compagnie volano molto”. Non è questo il fattore che consentirà a Ita di stare sul mercato. Le zavorre della compagnia sono altre: la dimensione troppo piccola e le alte tariffe aeroportuali pagate a Roma Fiumicino, l’hub di riferimento. “Il tutto nel paese che ha dato più spazio alle low cost, soprattutto con il governo Monti, a differenza di Germania e Francia che hanno tenuto i vettori a basto costo lontani dagli aeroporti principali”, ricorda l’economista che conclude “Ita parte con risorse per reggere due inverni in perdita. Dopo di che saremo probabilmente punto e a capo”.
Questa le letture giuridiche ed economiche della situazione. Quella politica è, se possibile, ancora più desolante. “La disapplicazione del Ccnl è un segnale pessimo, molto preoccupante che va al di là della specifica e peculiare vicenda di Alitalia”, ragiona lo storico e politologo Marco Revelli. “Qui si mettono in discussione non solo e non tanto i livelli retributivi ma anche diritti e garanzie. Che questo avvenga proprio mentre si propone ai sindacati un patto sociale ha un che di paradossale. Il legittimo sospetto è che si tratti un patto leonino, in cui una parte schiaccia l’altra. Il che peraltro spiegherebbe l’incontenibile entusiasmo con cui Confindustria guarda a Mario Draghi“. “Le scelta di ignorare il contratto collettivo di lavoro, di togliere prontamente dal tavolo il tema del salario minimo sono tutte decisioni coerenti con la cifra neoliberista del governo Draghi”, afferma il sociologo Domenico De Masi. “Il neoliberismo è una dottrina che dà molto ma che chiede anche molto e Draghi è la quintessenza di questa scuola di pensiero. Ha sempre presidiato il dossier delle privatizzazioni. Ha fatto fuori le banche popolari. Ora svolge il ruolo di garante dell’applicazione di questi principi all’Italia e della fedeltà italiana all’Ue”.
Nel maggio 2017 l’attuale consulente economico di Draghi, Francesco Giavazzi, scriveva sul Corriere della Sera “Dobbiamo chiederci a che serve una compagnia nazionale, anche qualora riuscissimo a farla rinascere. A Trapani Ryanair da sola porta un milione e mezzo di turisti l’anno: erano 300mila dieci anni fa prima che arrivasse la compagnia irlandese (…) Né la scomparsa di Alitalia ci farebbe perdere turisti cinesi o giapponesi: le loro compagnie ormai offrono numerosi collegamenti diretti con Roma, Milano e Venezia (…). Si dovrebbe fare quello che alla politica e ai governi non è mai piaciuto: dire la verità. Alitalia è al capolinea. Proteggiamo i dipendenti trattandoli come trattiamo quelli di tante altre compagnie che purtroppo falliscono: non peggio ma neppure meglio. O si pensa che tre commissari, senza un capo azienda, senza azionista e soprattutto senza obiettivi industriale possano riuscire nel miracolo?”.