Con una certa abilità sono stato a lungo capace di evitare un fetale ripiegamento nella disperazione, lavorando da 35 anni sull’innesco e sugli impatti del riscaldamento globale legati al ciclo delle acque, motore del clima. Ho imparato a tenere sotto controllo l’ansia, liberarmi dall’angoscia, guardare con fiducia alla progressiva presa di coscienza collettiva sulla questione climatica. Ma l’ottimismo della passione scientifica e civile sta lasciando il posto al pessimismo della ragione. E, negli ultimi mesi, mi sono trovato sveglio di notte, rimuginando brutti pensieri sul futuro, che certamente non vedrò.

Con la ripresina post-pandemica, l’umanità sta conquistando un altro record in termini di concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica: avvicineremo le quattrocentoventi parti per milione. È la rudimentale previsione di un famoso Rapporto del MIT: The Limits of Growth (“I limiti dello sviluppo”, 1972). Era quasi una profezia, proiettata sull’orizzonte del 2020, l’anno nero che abbiamo appena superato. Sulla base di quel Rapporto rivoluzionario avevo scritto la “tesina” di laurea, perché la tesi vera e propria andava compilata sulle cose serie.

Il tenore della CO2 atmosferica non è mai stato così elevato, almeno da molti milioni di anni. E non si ridurrà, almeno nel prossimo futuro. Nel 2020 le emissioni globali di CO2 erano diminuite del 5,8%: quasi 2 Giga tonnellate in meno. Era stato il calo più forte mai registrato nella storia moderna, quasi cinque volte maggiore di quello del 2009, frutto della crisi finanziaria. È una crescita record, seconda solo a quella osservata nel 2011, anno della ripresa da quella stessa crisi finanziaria. Nonostante i buoni propositi del Summit di Rio de Janeiro (1992), l’umanità non ha mai “lasciato”, bensì “raddoppiato” la quantità della CO2 atmosferica: hasta siempre Mike Bongiorno, padre di Lascia o raddoppia?

Negli ultimi vent’anni, gli Stati Uniti e l’Europa hanno proclamato ai quattro venti le nuove politiche ambientali che avevano in canna. Con un’acuta e minuziosa analisi pre-pandemica delle politiche europee, Elise Remling, dimostrava “la tensione tra l’ambizione dichiarata di agire sull’adattamento e i suggerimenti impliciti che nulla deve davvero cambiare” (Remling, E., 2018, Depoliticizing adaptation: a critical analysis of EU climate adaptation policy, Environmental Politics, 27:3, 477-497). Non sono sicuro che abbia letto Il Gattopardo, ma la lezione del Principe di Salina ha un respiro universale.

Finora abbiamo sparato solo qualche petardo, però: i colpi sono tuttora rimasti in canna. La sfida può essere davvero affrontata dal mercato e dalle innovazioni tecnologiche e dalla integrazione dell’adattamento nelle politiche settoriali esistenti? Secondo la Remling, il discorso politico mira, in realtà, a “depoliticizzare le scelte che le società fanno in risposta ai cambiamenti climatici, presentando l’adattamento come una questione a-politica”.

Al contrario, bisognava costruire l’adattamento attraverso un ampio dibattito sociale sul paradigma economico che ha esacerbato il cambiamento climatico e dilatato la vulnerabilità del territorio e della società. È cambiato qualcosa con la pandemia e il rinnovato sforzo di politiche comuni europee di contrasto ai cambiamenti climatici? Non ho percepito alcunché di concreto, solo ambaradan, fuffa, blablazione, apparenza: in fondo viviamo di app. Parafrasando Paulo Coelho, le politiche ambientali sconfinano nell’arte di rimandare le decisioni finché i problemi non si risolvano da soli.

Invero, l’adattamento sembra l’unica faccenda seria, alla quale alcuni paesi civili stanno guardando con attenzione e dedicano risorse crescenti. Una misura declinata in modo troppo spesso ingegneristico, ancor più sovente mossa da una ispirazione iper-tecnologica non sempre realistica. L’adattamento è una misura fondamentale e indispensabile, ma del tutto insufficiente e inadeguata, senza mitigazione. E la mitigazione reclama un cambiamento radicale della società, un progressivo passaggio da una società di consumatori a una società di utilizzatori.

Efficaci politiche di adattamento hanno certamente bisogno di tecnologie d’avanguardia e d’ingegneria consapevole. Devono però includere il paesaggio e gli ecosistemi, stimolare la percezione della gente senza indulgere in millenarismi, conquistare il consenso sociale e stimolare la partecipazione. Il governo della transizione ecologica non può che essere transdisciplinare. Gli italiani lo percepiscono assai poco e i governanti meno ancora: quando va bene, si affidano ciecamente a competenze strettamente disciplinari di qualità; se va peggio, a palesi incompetenze scientifiche di millantata e improbabile eccellenza.

Le rane bollite di tutto il mondo – l’umanità descritta nel post della scorsa settimana – continuano tranquillamente a crogiolarsi nel tepore che le avvolge. E così si adattano, almeno per ora. La rana italiana, invece, si strugge, discute, litiga, parla spesso a vanvera di massimi sistemi e di soluzioni fantascientifiche con la competenza tecnologica acquisita dall’assidua frequentazione di Facebook. Neppure prova ad adattarsi: siamo inadattabili o, addirittura, inadatti?

P.s. Mi scuso per l’abuso di parole poco ortodosse come “ambaradam”, che deriva dal (quasi) omonimo altipiano etiope: una frequente interlocuzione di mia madre, classe 1906. “Fuffa” risale al mio (lontano) periodo di vita fiorentina, perché la fuffa in genovese è lo spavento. Ho estrapolato “blablazione” dal culto per il neologismo di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei.

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