Con No Time To Die si assiste alla quintessenza di questo nuovo-Bondismo più devoto agli alti valori che alle facili scopate dopo un “Martini agitato, non shakerato”. No Time For Spoilers: si è detto abbastanza, la parola ora passa al pubblico
No Time For Spoilers. Così recita la didascalia che campeggia da sottotitolo di No Time To Die ad ogni prémière per la stampa in giro per il mondo. E l’ormai consueta raccomandazione legata ai blockbuster 2.0 ha più di una ragion d’essere, cioè colpo di scena, per questo nuovo capitolo del franchise più “classico” e duraturo della Storia del cinema. L’uscita del quinto, tormentato ed ultimo film di Daniel Craig nei panni di James Bond non solo è stata palleggiata da un rimando all’altro (ovviamente causa Covid), ma nel tempo della spasmodica attesa si è anche pregiata di legarsi al “Bond definitivo” fin dalla sua origine. Insomma, Bond e non più Bond? Eppure il titolo fa ben sperare, non è tempo per morire.
Nella sacrosanto rispetto del “no spoiler” il non facile commento critico può cominciare da un breve questionario:
I colpi di scena valgono il silenzio di chi l’ha visto verso chi intende vedere il film? Sì
L’abnorme durata dell’opera (163’) è giustificata e sostenibile? Abbastanza e sì.
È consigliabile rivedere Spectre (il precedente film) per gustare No Time To Die al meglio? Sì, ma non necessario.
Questo capitolo di 007 piacerà in prevalenza al pubblico maschile o femminile? Femminile, ma anche trasversalmente a tutti gli amanti della saga e dei film di spionaggio in generale.
Dei cinque film con Craig è il migliore? No, il migliore resta Skyfall.
Al netto del gioco di lapidarie risposte sopra elencate, che gli spettatori potranno serenamente sconfessare a partire da domani, 30 settembre, quando questo o Bond diretto da Cary Joji Fukunaga (il geniale inventore di True Detective) vedrà la luce di tutte le sale del pianeta, è naturalmente opportuno allargare le riflessioni. A partire da ciò che No Time To Die sembra voler veicolare (con non poca insistenza) e sigillare nella memoria del suo pubblico. E ciò può sintetizzarsi in una frase pronunciata da un personaggio all’inizio del racconto: “Il passato non è morto”. L’intero film, infatti, appare pervaso più da emozioni e pensieri legati al passato che non al futuro, quasi fosse un malinconico viaggio nei misteriosi territori della nostalgia e del desiderio di amare. Certamente non mancano l’action esplosiva, l’irresistibile British humor, i vertiginosi viaggi in maestosi paesaggi (Matera ne esce straordinariamente bene..) e il fascino di personaggi e attori sempre al top, ma se volessimo declinare in aggettivi No Time To Die non ci sarebbero dubbi su: romantico, sentimentale, esistenziale… ai limiti del commovente. Probabile complice di questa sentimentali-virata è certamente il contributo in sceneggiatura di Phoebe Waller-Bridge, la creatrice e interprete della serie cult Fleabag.
In definitiva, James Bond, che vive nel suo tempo fuori-dal-Tempo, ha trovato nel corpo di Daniel Craig – e nelle trame messe in scena dai registi Martin Campbell e soprattutto da Sam Mendes che finalmente ha trasformato i “filmetti” sull’agente di Ian Fleming in cinema – un eroe umano, pensante, fragile e fallibile, quasi più devoto all’anti-eroismo che al successo. Con No Time To Die si assiste alla quintessenza di questo nuovo-Bondismo più devoto agli alti valori che alle facili scopate dopo un “Martini agitato, non shakerato”. No Time For Spoilers: si è detto abbastanza, la parola ora passa al pubblico.