La frattura con Giancarlo Giorgetti? “Un’invenzione. Mentre i giornali si occupano di ipotetiche spaccature, noi insieme stiamo cercando di non tornare alla legge Fornero”. La pensate allo stesso modo sul futuro della Lega? “Assolutamente sì“. Questa è la versione ufficiale, ribadita da Matteo Salvini ancora una volta a Radio Anch’io. Poi ci sono i retroscena, sempre più insistenti dopo l’intervista a La Stampa di lunedì in cui il ministro dello Sviluppo, sconfessando la linea del leader, ha lodato Draghi (“Lo vorrei a Chigi per sempre”), ha endorsato Calenda al posto di Michetti nella corsa al Campidoglio (“Ha le caratteristiche giuste”), ha affossato l’idea di Berlusconi al Quirinale (“L’interesse del Paese è che ci vada Draghi”) e ha tributato gli onori al fondatore Umberto Bossi (“Tutto quello che so l’ho imparato da lui”). Il segretario si sente accerchiato, convinto che l’affondo di Giorgetti e la contemporanea uscita della notizia dell’indagine per droga su Luca Morisi siano parte di un complotto per farlo fuori dalla guida del partito.
E sul Corriere della Sera una ricostruzione di Francesco Verderami si spinge a dare per iniziato – in anticipo – il prossimo congresso della Lega: “Giorgetti lo ha aperto prima ancora che chiudessero le urne, scommettendo su una sconfitta del disegno salviniano alle amministrative. Se il voto dovesse consegnare al Carroccio un risultato sotto il 10% al Centro e al Sud, tramonterebbe infatti l’obiettivo di una forza a dimensione nazionale“. A quel punto, secondo il Corriere, il piano del ministro sarebbe un “ritorno alle origini”, cioè a un partito territoriale: ma in una forma più matura della vecchia Lega Nord, “sul modello della Csu bavarese, sganciato dalle logiche sovraniste e ancorato al Ppe”. Un percorso in cui si inseriscono a pennello i guai di Morisi, il guru della Lega salviniana, inviso alla vecchia guardia che lo accusa di aver snaturato l’identità del partito ancorandola al populismo da social, e finito sul banco degli imputati per il recente calo di consensi. “L’inventore della Bestia era più tollerato che amato dalle eminenze del partito”, scrive Pietro Senaldi su Libero. “Quando si è al Governo serve un’altra narrazione: sono in tanti a pensarlo nel Carroccio, e altrettanti pensano che l’inchiesta di Verona sia in qualche modo funzionale allo scopo”.
Anche il no di Giorgetti all’ipotesi di Berlusconi capo dello Stato, secondo Verderami, “è parte del disegno, perché mira a far saltare la federazione di centrodestra a cui aspira Salvini, indicando invece a un pezzo di Forza Italia la strada per un’aggregazione dell’area moderata insieme ai centristi, a Renzi e a Calenda, citato non a caso per la corsa al Campidoglio”. A proposito della corsa al Quirinale, sembrano risalire le quotazioni dell’attuale premier: dopo l’endorsement di Giorgetti, a favore del suo trasferimento al Colle si sono schierati il ministro della Pa Renato Brunetta (Forza Italia) e un altro nome di peso leghista, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia. Mentre Giorgia Meloni chiude ancora una volta al bis di Mattarella: “Non si può utilizzare come prassi la riconferma, significa ripetere una politica che abdica alle sue responsabilità”. Un’alleanza che, secondo Senaldi, prova “a scavare un fossato per isolare Salvini” su input della sinistra. “Sembra di rivedere il caso Fini, con i progressisti che hanno mandato a schiantarsi il presidente di An, blandendolo e incitandolo a sfidare Berlusconi”. Un paragone che, nelle intenzioni, per Giorgetti è tutto meno che lusinghiero.