Il Consiglio di Stato cinese, cioè l’esecutivo, ha diffuso lunedì 27 settembre un “Programma per lo sviluppo delle donne e dei bambini in Cina” valido da qui al 2030. Si tratta di linee guida, quindi non di una legge che entra nei dettagli (ma le leggi cinesi non entrano mai troppo nei dettagli per non limitare la discrezionalità del potere politico) e soprattutto non si parla solo di aborto, come potrebbe invece apparire leggendo i primi resoconti su parecchi media occidentali. Anzi, se ne parla pochissimo. Nell’introduzione si dice esplicitamente che l’obiettivo è realizzare quella fondamentale politica di Stato che è l’uguaglianza di genere per “la metà del cielo” (ban bian tian), una definizione della donna che risale a Mao. Il Consiglio di Stato si impegna quindi ad aumentare la rappresentanza femminile nel governo, combattere la discriminazione di genere e le molestie sessuali sul lavoro e utilizzare le politiche fiscali per aiutare le famiglie nella cura dell’infanzia. Il testo rivendica inoltre che lo sviluppo complessivo delle donne è “un indicatore importante del progresso civile” in Cina.

La salute della donna (e del bambino) è effettivamente messa al primo punto del lunghissimo documento, ma il riferimento alla possibile limitazione del diritto all’aborto è contenuto in una sola frase sibillina: Jianshao fei yixue xuyao de rengong liuchan, traducibile come “ridurre gli aborti non giustificati dal punto di vista medico”. Due righe sopra compariva l’unica altra frase che contiene la parola “aborto”: jiaqiang chanhou he liuchan hou biyun jieye fuwu, cioè “rafforzare i servizi di contraccezione e controllo delle nascite post-parto e post-aborto”. Insomma, sintetizzando: cari cinesi, conteniamo la pratica dell’aborto volontario, ma offriamo al contempo assistenza medica sia che si decida di avere un figlio sia che si decida di non averlo.
Alcuni sottolineano come la definizione “aborti non giustificati dal punto di vista medico” è una formula che si riferisce agli aborti selettivi, da sempre illegali ma comunque diffusi nella Cina del controllo delle nascite, quando molte famiglie abortivano qualora l’ecografia avesse rivelato una futura figlia femmina. La preferenza per il maschio dipendeva da ragioni culturali, economiche e sociali.

È presto per capire come si tradurranno nello specifico queste nuove linee guida, c’è un precedente nella provincia del Jiangxi dove nel 2018 si è stabilito che dopo la 14esima settimana di gravidanza si può abortire solo con il parere positivo di tre medici. Non si sa al momento se l’esperienza pilota della provincia sud-orientale diventerà standard nazionale, in tal caso saremmo comunque su livelli europei (in Italia si può interrompere la gravidanza dopo 90 giorni solo in caso di grave compromissione della salute della madre o del feto). Fatto sta che è chiara l‘indicazione politica e cioè che si vogliono meno aborti, specialmente quelli selettivi. Al di là della futura applicazione pratica delle linee guida e della specifica questione dell’aborto, il “Programma per lo sviluppo delle donne e dei bambini in Cina” ha suscitato commenti negativi perché, nonostante l’accento sullo sviluppo complessivo della donna e sui diritti e servizi che devono accompagnarlo, la “metà del cielo” sembra relegata alle sue funzioni riproduttive e di cura della famiglia. Non a caso il documento si occupa congiuntamente di donne e bambini.

Per renderci comunque conto della possibile ricaduta pratica di questa svolta, pensiamo che fino al 2015 – anno in cui fu permesso di avere un secondo figlio – qualsiasi funzionario locale era tenuto ad applicare rigide norme di controllo delle nascite che, nella Cina profonda, si traducevano in pratiche spesso cruente, come le sterilizzazioni e gli aborti forzati, all’origine di tante tragedie famigliari. Oggi gli si chiede sostanzialmente di vigilare per l’esatto contrario: chiamiamole “gravidanze forzate” e anche da questo dipenderà la sua carriera. Il rischio, in questo caso, è che in presenza di una linea guida (un messaggio politico) e in assenza di una legge chiara, si scateni la gara a chi è più zelante, con la discrezionalità del singolo funzionario che si trasforma in arbitrio.

Le nuove linee guida fanno parte di quel pacchetto di misure atte a favorire una ripresa demografica dopo che la scorsa primavera il censimento ha rivelato che la crescita della popolazione dal 2011 al 2020 è stata la più lenta dagli anni ’50 e si prevede che rallenterà ancora di più. I tassi di natalità in Cina sono in costante calo: nel 2020 il Paese ha registrato solo 12 milioni di nuovi nati, il numero più basso dal 1961. Oggi il tasso di fertilità è di 1,3 figli per donna, ben al di sotto dei 2,1 necessari per mantenere una popolazione stabile.
A maggio, le autorità hanno quindi deciso che si possono avere fino a tre figli, poi si è facilitato l’ottenimento delle licenze di maternità e infine si è cercato di ridurre l’onere finanziario per l’educazione dei ragazzi, oggi spaventosamente esosa e fonte di discriminazione sociale.

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