Una sentenza pesantissima, che appare addirittura abnorme se la si paragona ad altri casi. Il Tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere, raddoppiando la richiesta dei pubblici ministeri Michele Permunian e Marzia Currao (7 anni e 11 mesi). Ma di cosa è stato ritenuto responsabile l’ex sindaco di Riace? E com’è stato possibile arrivare a una pena così alta? In attesa delle motivazioni – saranno depositate tra 90 giorni – il dispositivo insieme ai capi d’imputazione può aiutare a fare qualche ipotesi. E a tracciare alcuni punti fermi. Ad esempio, Lucano non ha favorito l’immigrazione clandestina: quell’accusa, in cui si insinuava che avesse organizzato “matrimoni di comodo tra cittadini riacesi e donne straniere al fine di favorire illecitamente la permanenza di queste ultime nel territorio italiano”, è stata ritirata dai pm ancor prima di arrivare a sentenza. Le condanne invece sono per un lungo elenco di reati contro la pubblica amministrazione, la pubblica fede e il patrimonio: associazione per delinquere finalizzata a “commettere un numero indeterminato di delitti”, falso in atto pubblico e in certificato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio e peculato.
Nella loro richiesta, i pubblici ministeri li consideravano tutti uniti dal vincolo della continuazione, cioè “esecutivi di un medesimo disegno criminoso“: in questi casi, per calcolare la pena, si prende quella inflitta per il reato più grave (pena base) e la si aumenta fino al triplo. Il reato più grave è il peculato, punito da quattro a dieci anni: l’accusa chiedeva di partire dal minimo, quattro anni, raddoppiandolo fino a quasi otto. I giudici invece hanno fatto una scelta diversa: hanno separato due “disegni criminosi”, raddoppiando le pene base e aumentando di conseguenza l’entità della condanna. Il primo – il più grave – include associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato e dieci diverse truffe aggravate, e da solo ha prodotto una pena di 10 anni e 4 mesi di carcere. Come ci si è arrivati? Evidentemente – è il pensiero di molti addetti ai lavori – non partendo dalla pena di quattro anni, come chiesto dai pm, ma da una più alta. Perché? La ragione può trovarsi nel fatto che il peculato per cui è stato condannato Lucano riguarda una somma altissima, quasi 800mila euro, che difficilmente giustifica una pena ridotta al minimo.
A questi 10 anni e 4 mesi vanno aggiunti altri 2 anni e 10 mesi per il secondo gruppo di reati, che comprende tre diverse condotte di abuso d’ufficio (reato più grave) e il falso in certificato per aver rilasciato una carta d’identità a una cittadina nigeriana che non era residente a Riace. Così si arriva ai 13 anni e 2 mesi inflitti all’ex sindaco. A pesare è stato anche un altro fattore: la riqualificazione – fatta d’ufficio dai giudici – di uno degli abusi d’ufficio in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Inoltre, né a Lucano né a nessun altro dei 26 imputati sono state concesse le attenuanti generiche, neanche avrebbero potuto essere motivate con l’assenza di precedenti penali. “È una sentenza sconcertante che dimostra una volontà repressiva difficilmente spiegabile nei confronti del modello Riace”, dice al fattoquotidiano.it Lorenzo Trucco, difensore di tre imputati (tra cui Lemlem Tesfahun, compagna dell’ex primo cittadino) e presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. “In quarant’anni di carriera non ho mai visto infliggere il doppio della pena chiesta dall’accusa. E quel peculato da centinaia di migliaia di euro è assurdo, considerato che Lucano non ha in tasca un soldo”.
Già, perché nel capo d’imputazione si legge che l’ex sindaco e altri imputati si sono “appropriati in modo sistematico” di “ingenti fondi pubblici destinati alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati”. L’episodio più importante alla base della condanna consiste nell’utilizzo di 251.842,78 euro per “acquisto, arredo e ristrutturazione di tre case e un frantoio non rendicontati nei summenzionati progetti e utilizzati per finalità privatistiche“. Si afferma inoltre che Lucano ha “prelevato e/o comunque gestito denaro contante, attinto dai conti correnti dell’associazione, senza alcuna giustificazione (documenti, ricevute, note ecc) nelle rendicontazioni e nella contabilità” per un totale di 92.856,90 euro, nonché “addebitato allo Sprar i costi generati dall’utenza telefonica in uso esclusivo” alla compagna per 2.209 euro. E ciò nonostante il gip di Locri, nell’ordinanza con cui aveva messo l’allora primo cittadino ai domiciliari, avesse parlato di “marchiane inesattezze” e “congetture” proprio sulla distrazione dei fondi, sottolineando che Lucano non aveva mai guadagnato un euro dalle condotte di cui veniva accusato. “Peculato? È come accusare di omicidio un cadavere“, ha detto il suo avvocato Andrea D’Aqua subito dopo la lettura del dispositivo. Restano altri due gradi di giudizio per sapere se è vero.