In Europa c’è un nuovo campione delle “porte girevoli”. Si tratta dell’ex commissario Hogan, uomo chiave delle trattative Europa-Stati Uniti per energia e commercio, mediatore dei futuri rapporti col Regno Unito post-Brexit. Qualcuno però lo ricorderà più per la sua uscita di scena col botto: nell’agosto 2020 dovette dimettersi per aver inanellato una figuraccia via l’altra: era stato immortalato a una “cena sociale” al golfclub del Parlamento irlandese senza mascherina, in aperta violazione sulle restrizioni in atto; voleva andarci col vestito buono e per questo passò dal suo appartamento nella contea di Kildare, violando così il coprifuoco in vigore per i residenti; nel tragitto fu anche multato per guida col cellulare in mano. A un anno dalle dimissioni, però, lord Hogan è di nuovo sulla cresta dell’onda: ha un nuovo lavoro e una nuova bufera con cui fare i conti.

A metà settembre è stato ingaggiato dalla DLA Piper, società di consulenza legale globale con sedi in tutto il mondo. Hogan ha un ufficio proprio a Bruxelles e il suo ruolo è di “consulente strategico e politico senior nel team di consulenza e affari governativi globali di DLA”. In questa veste fornisce un “livello incomparabile di consulenza strategica e consulenza ai clienti, ovunque si trovino nel mondo”. La domanda che corre da giorni nei corridoi del Parlamento europeo è: ma Hogan ha avvisato qualcuno?

Perché di sicuro era tenuto a farlo, che l’abbia fatto no. Proprio per disincentivare il “salto dello steccato” nel 2018 la Commissione ha riscritto il codice di condotta dei propri membri. All’articolo 11 il regolamento ha fissato un vincolo chiaro: per due anni dalla fine del mandato gli ex commissari intenzionati a svolgere un’attività professionale lucrativa in qualche modo connessa alle attività dell’Unione o che – recita il testo – comporti “azioni di lobbyng”, devono informare la Commissione e farsi autorizzare. L’incarico viene poi vagliato da un Comitato etico indipendente che valuta il rischio di potenziali conflitti con gli interessi dell’Unione.

Che sia andata così nel caso Hogan ci sono molti dubbi. Del suo ingaggio si è appreso infatti solo in seguito ai comunicati aziendali diramati a metà settembre dallo studio legale internazionale che lo ha ingaggiato, ripresi poi da un giornale irlandese che si occupa di professioni legali. Dopo qualche giorno la notizia è rimbalzata sui siti di informazione e quando i giornalisti hanno chiesto spiegazioni a Bruxelles, il portavoce della Commissione Europea ha risposto che non era in grado di dire se l’ex commissario avesse comunicato o meno il suo nuovo incarico. Hogan ha tentato una difesa d’ufficio, sostenendo che a maggio 2020, quando era ancora in carica, il comitato di cui sopra avesse dato il nullaosta a una consulenza in favore della DLA dietro impegno scritto a non occuparsi delle materie oggetto del suo precedente mandato. Hogan sostiene che il nuovo incarico sia la prosecuzione naturale dell’altro, avvalorando così il sospetto che non abbia chiesto un vero nullaosta preventivo per il nuovo lavoro.

Il caso fa discutere anche per un risvolto molto concreto che suona ulteriormente beffardo. Come tutti gli ex commissari, anche Hogan percepisce dalla Commissione una speciale “indennità transitoria”, una voce della retribuzione che è stata espressamente introdotta nel regolamento del 2016 proprio per disincentivare le “porte girevoli”, cioè l’assunzione di incarichi che portino in dote alle società private l’acqua fresca delle conoscenze e dei rapporti intessuti durante il mandato di commissari. Questa voce è stata inserita all’articolo 10 del “Trattamento economico dei titolari di alte cariche dell’Ue” e solo per il 2022 sono stati messi a bilancio 2,8 milioni di euro. Il dubbio che aleggia è il seguente: se Hogan non ha comunicato l’inizio della nuova attività, ha continuato a percepire anche l’indennità di cui sopra? Vale a dire i soldi dei contribuenti europei per non fare il lobbista e quelli della società privata per farlo?

La domanda trae ulteriore fondamento per il fatto che l’indennità di transizione è modulata appositamente perché non si traduca in una “tagliola” sulle ambizioni degli ex commissari, ma come uno scivolo nel cosiddetto “periodo di raffreddamento”: se il nuovo incarico non è in palese conflitto col vecchio, gli ex commissari possono percepirne i relativi compensi e l’indennità di Bruxelles viene decurtata proporzionalmente fino a raggiungere il “tetto retributivo” che avevano quando erano in carica. L’ipotesi di un elegante raggiro delle norme spinge i parlamentari europei a chiedere chiarezza. Anche quelli italiani si stanno muovendo, in particolare il M5S che sta per depositare un’interrogazione alla Commissione per sapere se l’incarico fosse stato comunicato, valutato e approvato. “Se così non fosse saremmo davanti a un preoccupante caso di lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea. Su questa vicenda va fatta chiarezza immediatamente”, dice l’eurodeputata Sabrina Pignedoli al fattoquotidiano.it. Del resto non proprio di bruscolini si tratta: in base all’anzianità di servizio l’indennità di cui sopra vale dal 40 al 60% dello stipendio base che il titolare della carica percepiva alla cessazione dalle sue funzioni: nel caso dei commissari parliamo di circa 22mila euro al mese, escluse indennità.

Il caso Hogan arriva per altro in un momento molto delicato: entro dicembre la Commissione è chiamata a rimettere mano a tutta la materia. A gennaio 2020 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione con la quale chiede di dotarsi di nuovo Comitato etico comune a tutte le istituzioni della Ue, che vigili cioè sia la Commissione che il Parlamento, in un ottica di reale trasparenza e prevenzione dei conflitto di interessi. Uno strumento “essenziale per mantenere la fiducia dei cittadini europei nelle Istituzioni”, scriveva l’europarlamentare proponente Daniel Freund. Ma nemmeno questo organismo potrà imporre sanzioni, unico modo affinché la Relazione Freund fosse approvata.

A onor del verto esiste nello stesso Trattato di funzionamento interno dell’Unione (Tfue) la previsione di una specifica sanzione da parte del Consiglio contro i membri o gli ex componenti che abbiano violato i doveri di correttezza, compreso quello di non assumere incarichi in palese conflitto di interessi. Le sanzioni possono essere emesse dalla Corte di Giustizia e prevedono, a seconda delle circostanze, la messa a riposo o addirittura la privazione della pensione. Quante volte sia accaduto però non si sa, precedenti in materia – stranamente – non sono noti e nei pareri espressi dalle commissioni si fa ancora cenno alla necessità di introdurre sanzioni effettive. Il sospetto, visto l’andazzo, è che mai arriveranno.

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