“Non stavamo facendo alcun reale progresso sulla strada di una riforma della polizia”. Lo ha detto il senatore democratico Cory Booker, nell’annunciare la fine dei negoziati con i repubblicani su una legge che fissasse compiti e limiti dell’azione della polizia americana. Si infrange così, almeno per il momento, il sogno di una riforma che onorasse la memoria di George Floyd e delle tante altre vittime di abusi polizieschi di questi anni. C’è delusione nei gruppi per i diritti civili, soprattutto tra quelli afroamericani, per il fallimento dei negoziati. Ma la questione non è l’unica che travaglia l’amministrazione e diffonde malcontento. Le ultime settimane sono state segnate da una serie di problemi e sconfitte su temi dirimenti per l’elettorato democratico e progressista: immigrazione, aborto, diritto di voto. Molte delle speranze sollevate dall’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca sembrano dissolversi nel confronto con la realtà e con gli equilibri di forza della politica.

“Incredibile e inaccettabile”. Così il reverendo Al Sharpton ha definito il naufragio della legge per riformare la polizia. E secondo Derrick Johnson, il presidente della Naacp (la National Association for the Advancement of Colored People), “sindacati di polizia e politici partigiani hanno scelto di stare dalla parte sbagliata della storia. Con quelli che linciavano le persone di colore”. È profonda la delusione in molti protagonisti e gruppi della politica e dell’opinione afroamericana. L’amministrazione in cui avevano riposto tante speranze, e che avevano convintamente sostenuto alle ultime elezioni, non è riuscita ad approvare la misura a lungo sperata. Democratici e Repubblicani, come in tante altre occasioni, si rimpallano le responsabilità. I Dem accusano gli avversari, che avrebbero fatto resistenza in tema di “qualified immunity”, l’immunità quasi totale di cui godono gli agenti quando sono in servizio. I membri del Grand Old Party rispondono attaccando: i colleghi di partito di Biden avrebbero cercato di sottrarre finanziamenti ai Dipartimenti di polizia. Cosa che, per l’appunto, i conservatori non possono permettere.

Nello scontro sono intervenuti, come prevedibile, anche i potentissimi sindacati di polizia. Con la conservatrice National Sheriffs’ Association solidamente schierata contro qualsiasi concessione. E con il Fraternal Order of Police e l’Association of chiefs of Police più disponibili a un compromesso. Alla fine, però, non se ne è fatto niente. I Democratici non potevano accettare di far passare una riforma che non contenesse alcuni punti davvero qualificanti, in particolare la questione della responsabilità penale degli agenti che si rendono colpevoli di abusi. Alla Camera era già passato, in febbraio, il George Floyd Justice in Policing Act, che proibiva il profiling razziale, sottoponeva gli agenti a un maggior controllo giudiziario, bandiva la stretta al collo per i sospettati e le perquisizioni senza avviso. Quella legge non ha però i voti per passare al Senato e resta dunque lettera morta. Ora il fallimento dello sforzo bipartisan per arrivare a un testo diverso, di compromesso, ha il valore di una croce sopra ogni futura azione. I Dem si impegnano pubblicamente a lavorare per una nuova legge, ma tutti sanno che la riforma di polizia non si farà.

E questa non è una situazione isolata, ma sembra inserirsi in un più vasto contesto di cambiamenti strutturali promessi da Joe Biden e dai democratici in campagna elettorale, nel 2020, e che non si stanno realizzando. Un esempio piuttosto illuminante è la riforma dell’immigrazione. I Democratici non hanno i 60 voti al Senato per farla passare e la soluzione trovata è stata quindi quella di inserire il progetto di riforma nel pacchetto da 3.500 miliardi di dollari in finanziamenti per infrastrutture e spesa sociale in discussione al Congresso (per il quale basta la maggioranza semplice di 51 voti). Il ragionamento dei democratici è questo: legalizzare otto milioni di persone (Dreamers, lavoratori agricoli, chi ha prestato servizio nei servizi di assistenza durante la pandemia, certe categorie di profughi) avrà un costo importante e dunque la riforma va inserita in una legge finanziaria. È però subito arrivata la doccia fredda da parte della parliamentarian Elizabeth MacDonough, una figura di garanzia che presiede alla costituzionalità delle procedure del Senato. La riforma dell’immigrazione non può essere inserita nella legge di bilancio, perché il suo impatto sulla società “va ben al di là di una semplice misura finanziaria”.

Il fallimento, l’ennesimo, nel far passare la legge che regolarizza la situazione di milioni di persone che da anni vivono e lavorano negli Stati Uniti è peraltro venuto negli stessi giorni in cui le guardie di frontiera picchiavano i migranti, soprattutto haitiani, accampati alla frontiera tra Texas e Messico, e il Dipartimento alla Sicurezza Nazionale annunciava la riapertura di un campo di detenzione per migranti a Guantanamo. Una coincidenza di eventi che ha lasciato delusi, in molti casi furibondi, coloro che speravano in un cambiamento di rotta in tema di immigrazione tra l’amministrazione di Donald Trump e quella di Joe Biden. La stessa misura che Biden sta utilizzando per le deportazioni alla frontiera – il Title 42 che consente in tempi di pandemia di allontanare i migranti senza passare da un regolare tribunale per la valutazione del caso – è stata approvata da Trump nel 2020 tra le proteste (allora) dei democratici.

Delusione e scontento si stanno diffondendo in molti settori progressisti e democratici su tante altre vicende. Non riesce a essere approvata, come promesso, una riforma per il controllo nella vendita delle armi. Alcuni ordini esecutivi presi dall’amministrazione nei mesi scorsi non sostituiscono ovviamente una vera azione legislativa. A fine agosto quattro importanti gruppi per il gun control hanno scritto a Biden, lamentando che i suoi provvedimenti in tema di armi “sono significativamente più deboli rispetto alle promesse della campagna elettorale”. Situazione simile per quanto riguarda il diritto di voto. Dopo le iniziative legislative in Georgia e in almeno altri 16 Stati a guida repubblicana per limitare il voto, soprattutto degli afro-americani, l’amministrazione aveva promesso una legge che bloccasse quello che lo stesso Biden ha definito “il Jim Crow nel 21esimo secolo”, il ritorno a un sistema di segregazione razziale che si fonda sull’esclusione dal diritto di voto. Il “For the People Act”, una misura per proteggere e allargare l’accesso alle urne, è però miseramente naufragato al Senato per l’opposizione strenua dei repubblicani.

Non va molto meglio in tema di aborto. Biden ha definito la legge da poco passata in Texas, che fissa a sei settimane il limite entro cui si può praticare l’interruzione della gravidanza, “un assalto senza precedenti ai diritti costituzionali di una donna”. Ma cosa sta concretamente facendo l’amministrazione per proteggere quei diritti? Apparentemente poco. Di recente alcuni funzionari della Casa Bianca hanno ospitato le rappresentanti di gruppi femminili e per la difesa dei diritti riproduttivi. Molte hanno espresso preoccupazione per la sorte della Roe vs Wade, la storica sentenza della Corte Suprema che nel 1973 legalizzò l’aborto. “Perché certo dobbiamo prendere misure per bloccare la legge del Texas. Ma dobbiamo soprattutto capire quali azioni legislative prendere nel più lungo periodo”, ha detto Nancy Northup, presidente del Center for Reproductive Rights. Il problema è che, al momento, non è per niente chiaro quali siano le priorità legislative dell’amministrazione in tema di aborto.

Al di là dei casi specifici, è però del tutto chiaro quale sia la vera questione di fondo che complica la vita di Biden e dei democratici. “L’elefante nella stanza”, come è stato chiamato, è il filibuster, la regola del Senato per cui sono necessari 60 voti per superare l’ostruzionismo anche di un solo senatore. Ogni progetto di riforma di Biden non ha quei 60 voti (i 50 democratici più 10 repubblicani) e l’esito inevitabile è quindi la bocciatura del provvedimento o comunque il suo perdersi tra le stanze del Congresso. Da mesi diversi gruppi progressisti chiedono a Biden di riformare la regola del filibuster, ma il presidente non ci sente. I 36 anni trascorsi al Senato rendono Biden molto poco propenso a votare misure che limitino i poteri di un corpo che lui venera. Peraltro, è altrettanto ovvio che senza l’eliminazione del filibustering, quasi nulla (tranne le leggi finanziarie, che possono essere votate a maggioranza semplice) potrà essere approvato nei mesi che ci separano dal midterm 2022. L’obiettivo dei repubblicani, espresso del resto molto chiaramente quando il democratico vinse le elezioni, è quello di opporsi a tutto, rendendo Biden un presidente inefficace e “azzoppato” sin dagli esordi. Eli Zupnick, portavoce di Fix Our Senate, una coalizione di 80 gruppi per la riforma del filibustering, ha recentemente espresso tutta la frustrazione nei confronti di questa strategia. “Se non si cancella l’ostruzionismo, i democratici spezzeranno le loro promesse su tutte le questioni più importanti. Armi. Diritto di voto. Aborto”.

Le pressioni su Biden, al momento, non sembrano però aver sortito effetti importanti. Il presidente non vuole cancellare l’ostruzionismo e resta legato alla nozione di una politica bipartisan. Questa non porterà però da nessuna parte e tra ampi settori del voto democratico e progressista cresce la delusione e l’insoddisfazione. Due sentimenti pericolosi per il popolo democratico in vista dei prossimi appuntamenti elettorali.

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