I tre killer spuntano dal vicolo accanto alla sala da barba. Due di loro indossano i passamontagna, uno invece è a volto scoperto. “Mi devono vedere in faccia”, aveva detto alla moglie annunciando la vendetta. Da vico San Gaetano svoltano su via Garibaldi: l’ingresso della barberia è a qualche passo di distanza. È pomeriggio inoltrato e nella città vecchia di Taranto e, in quel 1 ottobre 1991, c’è tanta gente per strada. I ragazzi sono nella sala giochi accanto, alcune donne chiacchierano all’ingresso di una macelleria mentre un gruppo di uomini sorseggia la birra Raffo davanti al bar Via col vento. Anche nella barberia hanno appena finito di bere una birra. Nemmeno si accorgono delle armi che si affacciano dalla porta di ingresso. Forse non hanno neppure il tempo di capire cosa accade quando una pioggia di fuoco li raggiunge. Centinaia di colpi che non danno scampo. A terra restano Giuseppe Ierone, 52enne titolare del salone, e altre tre persone. Cataldo Padula, Domenico Ferrara e Francesco Abalsamo hanno poco più di 20 anni. Tutti muoiono per sbaglio. Il vero obiettivo era un capo mafia uscito solo pochi secondi prima dell’arrivo dei sicari: qualche ora prima aveva schiaffeggiato la moglie dell’unico membro del commando in azione a volto scoperto. Così la vendetta si abbatte su quattro innocenti. Nella Taranto di quegli anni, non è una novità. Perché a cavallo tra gli Anni ottanta e novanta, nella città dell’allora Italsider, è in corso una guerra. La mafia è in subbuglio.

Assalti ‘sudamericani’, affari e politica – La Strage della barberia è l’eccidio finale di una faida che conta oltre 160 morti in soli due anni. Quella sera d’autunno, le tv nazionali raccontano al resto d’Italia l’ultima carneficina messa a segno nel capoluogo ionico, dal luglio 1989 diventato il teatro di una cruenta battaglia criminale. Una storia che sembra una serie tv: una famiglia mafiosa che si spacca, gli assalti in pieno stile sudamericano, gli affari con la fabbrica di Stato, gli intrecci con la politica fino ai contatti con Licio Gelli, il venerabile maestro della loggia P2. Ma sono soprattutto i morti a segnare di rosso il calendario di quegli anni. Tanti, troppi. Mafiosi e innocenti, come le quattro vittime della barberia. Ma non solo. Dieci mesi prima della Strage della barberia, in uno dei tanti di agguati che si susseguono al quartiere Tamburi, muore Valentina Guarino: ha 6 mesi di vita e la colpa di stare tra le braccia della madre mentre un commando spara contro l’auto guidata dal padre Cosimo, vero obiettivo dei sicari. E poi Angelo Carbotti, ucciso sulla rampa dell’ospedale dopo aver prestato soccorso alla sorella di un presunto killer. Alle decine e decine di morti che militavano nelle fila della mafia ionica, quindi, si aggiungono vittime innocenti e anche servitori dello Stato. Come Carmelo Magli, agente della Penitenziaria crivellato di colpi per impartire una lezione ai poliziotti troppo duri con gli affiliati detenuti. Tra il luglio 1989 e l’ottobre 1991, tra le strade e i vicoli di Taranto si assiste a un massacro. Le forze dell’ordine non sono pronte ad affrontare quello che sta accadendo, boss e gregari prendono possesso della città. Taranto è “l’anti-Gomorra” secondo il cronista tarantino Stefano Maria Bianchi, autore della prefazione di Scamunera, il romanzo del giornalista emiliano Lorenzo Sani che sui veri protagonisti della guerriglia tarantina ha costruito un’avvincente epopea pulp. Una parte della politica locale, invece, sembra strizzare l’occhio agli uomini dei clan. Come Giancarlo Cito, l’ex telepredicatore dal passato fascista che dalle telecamere della sua emittente televisiva Antenna Taranto 6 si lancia contro avversari politici, giudici e giornalisti. L’uomo che negli anni successivi diverrà sindaco di Taranto, e poi parlamentare della Repubblica, nella notte di Natale del 1989 viene trovato in casa dei fratelli Modeo. Si difenderà sostenendo di essere andato lì per un’intervista, ma uno dei numerosi processi che lo travolgeranno lo condannerà definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa.

La famiglia Modeo e la vacca da mungere – Il cognome Modeo, ancora oggi, a distanza di 30 anni, evoca terrore nei tarantini. Lo strapotere del clan sulla Taranto degli Anni ’80 è paragonabile a quello dei corleonesi in Sicilia o di Pablo Escobar a Medellin. “È la Taranto in cui ormai imperversa la guerra di mala – scrivono l’ex pm Nicolangelo Ghizzardi e il giornalista Arturo Guastella nel libro Taranto, tra pistole e ciminiere – da tutti sottovalutata e da molti dolosamente relegata al rango di ordinaria delinquenza spicciola, è la Taranto in cui l’economia è al collasso a causa, anche, della grave crisi del settore siderurgico e dell’indotto, con un aumento inarrestabile della disoccupazione”. In queste sacche di disperazione i clan pescano soprattutto giovani e giovanissimi per irrobustire le fila dell’organizzazione. Prostituzione, bische, contrabbando, estorsioni, appalti: dai primi Anni ottanta, il clan Modeo domina il territorio ionico. Incontrastato e unito. A capo del gruppo ci sono i fratelli Modeo: Antonio detto “il Messicano” e i suoi tre fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio. Da piccoli delinquenti di periferia si fanno largo a suon di proiettili. Raggiungono la vetta nel settembre 1988 quando cade sotto i colpi dei sicari don Ciccio Basile, l’ultimo vecchio boss in grado di mantenere gli equilibri. Da quel momento, Taranto è una grande vacca da mungere: la città e la provincia sono stritolate tra crisi e strapotere criminale. E tutti si piegano. Commercianti, imprenditori, miticoltori pagano il pizzo. Persino gli amministratori dei condomini sono “invitati” a raccogliere offerte da inquilini e proprietari per evitare “spiacevoli inconvenienti”.

La faida per l’eroina – A coordinare il settore delle estorsioni per conto del clan Modeo ci sono Salvatore De Vitis e Orlando D’Oronzo: i fratelli hanno sempre lasciato piena autonomia ai due luogotenenti che col passare del tempo hanno saputo mostrare carisma e determinazione. Sono anche gli anni dell’eroina, ma quel business che trasformava i giovani in zombie è un tema su cui i fratelli sono in contrapposizione. Antonio Modeo è un mafioso con la mentalità imprenditoriale: ha aziende che lavorano nell’indotto dell’Italsider, mantiene contatti con esponenti delle altre mafie italiane e nel business dell’eroina vede solo il rischio di un grande allarme sociale. Per Riccardo, Gianfranco e Claudio, invece, quell’affare è imperdibile. “Cu a droghe se fanne le solde”, si ripeteva tra i vicoli. Ma quel punto è solo l’ultimo di una serie di vecchi dissapori che nascono già nell’ambito familiare. I fratelli sono infatti tutti figli di Cosima Ceci, ma “il Messicano”, pur avendo lo stesso cognome, è nato in realtà da una relazione precedente della donna. I tre Modeo non lo hanno mai considerato fino in fondo sangue del loro sangue. E così, con la crescita esponenziale del loro potere, anche le piccole ferite degenerano fino a diventare un’emorragia inarrestabile che distruggerà la loro famiglia. E centinaia di altre.

Kalashnikov e autobombe – La scintilla che fa deflagrare tutto è l’intercessione dei tre fratelli in favore di un imprenditore a cui i luogotenenti dei boss, De Vitis e D’Oronzo, avevano chiesto una tangente da un miliardo. Quel granitico blocco mafioso che era il clan Modeo si spacca in due fazioni: da un lato c’è Antonio il Messicano a cui si affiancano le famiglie De Vitis e D’Oronzo e dall’altra i fratelli Modeo. Il sangue comincia a scorrere nel luglio di quel 1989. Cadono nomi di spicco del panorama criminale, ma non solo. I fratelli Modeo uccidono Paolo De Vitis, padre di Salvatore. Gli avversari rispondono nel giro di 24 ore freddando Cosima Ceci, madre di tutti i Modeo. Riccardo, Gianfranco e Claudio ritengono il fratellastro Antonio corresponsabile di quell’omicidio, nonostante il Messicano abbia sempre negato quella circostanza. Da quel momento nelle strade si diffonde il terrore. Una sera, i fratelli raggiungono la borgata di Statte: decine di uomini armati fino ai denti esplodono migliaia di colpi contro la casa del Messicano che però non era in casa. Un episodio degno delle azioni dei narcos dell’America Latina. La risposta arriva poco dopo: il giorno in cui a Taranto arriva papa Giovanni Paolo II, al quartiere Tamburi un’autobomba esplode sotto l’abitazione di Claudio Modeo. Anche in questa occasione, fortunatamente, nessuna vittima.

Due anni di “tutti contro tutti” – Per i sicari dei due gruppi contrapposti la regola era una soltanto: ammazzare a vista ogni avversario. Le strategie per la pianificazione di un assassinio erano seguite solo per gli omicidi “eccellenti”, per il resto bastava incrociare un nemico per aprire il fuoco. Agguati, esecuzioni plateali e casi di lupara bianca diventano cronaca quotidiana. I clan si consumano a vicenda con colpi di kalashnikov. È una decimazione reciproca. Nell’estate 1990 muore anche il Messicano: a ucciderlo è il boss di Trani Salvatore Annacondia che dopo l’arresto dei fratelli Modeo ha preso in mano le redini del clan. Gianfranco e Riccardo Modeo vengono infatti acciuffati nella villa bunker di Montescaglioso, nel Materano. A tradirli sono i loro cani che, durante l’irruzione dei carabinieri, abbaiano vicino alla botola che conduceva al nascondiglio sotterraneo. E sarà proprio Annacondia, diventato poi collaboratore di giustizia, a svelare che i Modeo riescono persino ad agganciare Licio Gelli tramite un loro uomo fidato: è Marino Pulito a incontrare il “venerabile maestro” in un hotel di Roma nel 1991 per chiedere sostegno alla richiesta di revisione di un processo. I pentiti svelano che Gelli avrebbe offerto garanzie per risolvere la questione, ma tutto naufraga poco dopo, con l’arresto di Pulito. Salvatore De Vitis, l’uomo più vicino ad Antonio Modeo, viene invece ucciso a Milano nel maggio di trent’anni fa, pochi giorni dopo aver lasciato il carcere ionico. Il vuoto lasciato dai boss fa saltare gli equilibri interni alle due fazioni: i piccoli gruppi imbracciano le armi per accrescere il proprio potere. L’ultimo periodo è, in sostanza, un “tutti contro tutti”.

L’epilogo della saga criminale – Ed è in questo clima che matura la Strage della barberia. L’atto che chiude la saga criminale. Gli esecutori non hanno nomi di calibro nel panorama tarantino, anzi. Due sono addirittura minorenni, alla loro prima azione di fuoco. La nascita del pentitismo, infine, offre alla magistratura e alle forze dell’ordine l’occasione di infliggere il colpo mortale ai clan ionici. Con la giustizia iniziano a collaborare nomi di peso come Annacondia, Gianfranco Modeo e tanti altri. Collabora anche Vincenzo Cesario, uno degli uomini che guidava il gruppo di Taranto vecchia e la sua famiglia affigge tra i vicoli un manifesto funebre con parole emblematiche: “Improvvisamente è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari Vincenzo Cesario, ne danno il felice annuncio i fratelli Pasquale, Cosimo e Giuseppe con le rispettive mogli e il resto della famiglia. I funerali non avranno luogo perché la salma è stata buttata”. Le dichiarazioni dei pentiti confluiscono nel maxi-processo Ellesponto e in tanti altri come “Orrilo”, “Cruise”, “Tamburi” che seppelliscono la mafia ionica sotto secoli di carcere.

Trent’anni dopo – Alcuni boss, come Claudio e Riccardo Modeo muoiono da detenuti, altri dopo la lunga carcerazione, provano a riprendere le redini dei clan per rimettere le mani sulla città: arruolano i giovani cresciuti nella leggenda di quei nomi che fanno ancora paura. Ma i tempi sono cambiati. La città è cambiata. Anche grazie alle denunce, la Direzione distrettuale Antimafia di Lecce, dal 2012 i pm Alessio Coccioli e Milto De Nozza, grazie alle indagini di carabinieri, Guardia di finanza e polizia, mettono a segno una decina di operazioni: “Alias”, “Città nostra”, “Feudo”, “Duomo”, “Pontefice”, “Undertaker”, “Sangue Blu”, “Game Over”, “Impresa”, “Neve Tarantina”, “The old”, “Mercante in fiera”, “Tabula rasa”, “Cupola”, “Mercurio”. Per i vecchi boss e i nuovi gregari si riaprono le porte del carcere. L’eterna guerra contro la malavita non è finita, ma la sanguinosa storia dei Modeo appartiene ormai ai libri di storia.

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