Hanno visto i ricavi esplodere l’anno scorso con fatturati raddoppiati se non triplicati sul 2019, ma hanno finito per pagare le stesse tasse di prima dell’exploit delle vendite. Quello che appare come un paradosso è invece il caso delle filiali italiane di Google e Facebook che in questo modo, di fatto, sono riuscite ad aggirare l’accordo con il Fisco che prevedeva, dopo le transazioni degli anni scorsi per imposte non pagate per 306 milioni per Google e di 100 milioni per Facebook, di pagare le imposte su tutti i redditi realizzati in Italia. E così quella che doveva essere la chiave di volta, dopo le inchieste della Procura sull’elusione fiscale che hanno avevano portato all’accordo con l’Erario, e cioè iscrivere a bilancio tutte le attività e i redditi prodotti nel nostro Paese su cui pagare le imposte, è naufragata miseramente grazie a una banale operazione contabile, illustrata sulla versione online di Altreconomia, il mensile che si occupa di economia solidale e sostenibile.
Google Italy ha chiuso il 2020 con ricavi quasi triplicati da 184 milioni a 505 milioni. Ci si doveva aspettare un utile pre-tasse (su cui calcolare le imposte) di gran lunga superiore ai 18,9 milioni con cui aveva archiviato il 2019 pagando 5,65 milioni all’erario. E invece i profitti pre-imposte sono stati di soli 19,4 milioni e le tasse pagate quindi ferme a 5,7 milioni, in linea con il 2019. Come è stato possibile? Semplice. Con l’esplosione dei fatturati da vendita di pubblicità, sono aumentati in modo analogo i costi per servizi passati da 101 milioni a 387 milioni, vanificando ogni incremento atteso dei profitti. Quei costi però, che hanno finito per abbattere del tutto l’incremento del fatturato, sono tutti infragruppo, pagati cioè da Google Italy alla sua capogruppo irlandese. Una partita di giro quindi, che se ha fatto emergere la reale dimensione dei ricavi prodotti in Italia, ha consentito alla divisione italiana di mantenere lo stesso livello di imponibile fiscale prima dell’emersione.
Stesso copione per Facebook Italy che ha quasi raddoppiato in un solo anno il suo volume d’affari in Italia da 130 milioni a 235 milioni, ma che anch’essa ha visto più che raddoppiare i costi dei servizi da 108 milioni a 213 milioni, vanificando l’incremento atteso degli utili pre imposte, che sono addirittura scesi a 6,5 milioni dai 7,9 milioni del 2019. Il risultato è che la divisione italiana di Facebook ha pagato meno tasse (1,77 milioni contro i 2,33 milioni) dell’anno in cui i ricavi erano la metà di quelli realizzati nel 2020. Il “prodigio” è anche qui nel raddoppio dei costi (da 108 a 213 milioni) tutti inputati alla capogruppo Facebook Inc. E così grazie alla triangolazione infragruppo ( i costi spesati dalle divisioni italiane diventano ricavi per le capogruppo irlandesi che pagano imposte molto più basse) l’emersione dei reali fatturati nel nostro Paese non ha prodotto nessun effetto sul livello di tassazione pagato in Italia.
Un escamotage astuto che ha aggirato nel caso di Google, ma anche di Facebook, il “nuovo modello” che doveva mettere fine all’elusione fiscale, adottato il primo novembre 2019 dalla filiale di Google nel nostro Paese. Come spiega Altreconomia, “Google è passata da essere mero agente della consociata Google Ireland -dalla quale riceveva ogni anno una minima quota dei ricavi pubblicitari sotto forma di royalties– a ‘rivenditore’ diretto. Sulla carta questo schema avrebbe dovuto garantire allo Stato che l’attività pubblicitaria condotta in loco dalla multinazionale fosse dichiarata e tassata in Italia, ponendo fine alla triangolazione con Dublino“. Senza ricorrere ad astruse strutture societarie ma semplicemente facendo sponda con la capogruppo in Irlanda, Google Italy e Facebook Italy continuano a pagare tasse ai minimi termini.
“Rimane però il problema della correlazione dei costi con i ricavi”, chiarisce però sempre ad Altreconomia Gian Gaetano Bellavia commercialista, esperto di Diritto penale dell’economia e di riciclaggio che spiega: “Gli addebiti che arrivano dall’Irlanda e che le due società riportano in bilancio sono corretti? Questo è un compito che deve risolvere l’Agenzia delle Entrate italiana che ha tutti gli strumenti tecnici e di risorse per intervenire efficacemente sulla questione dei prezzi di trasferimento tra una società di diritto italiano è una società di diritto estero. L’Agenzia delle Entrate, soprattutto a Milano, lo fa con grande efficacia e quindi bisogna confidare nell’intervento degli ispettori fiscali per la verifica mirata degli accadimenti”.
Nel caso dei giganti del web, il vero problema per Bellavia sono le “regole che non ci sono nell’ambito dell’Unione europea”. “Finché l’Ue non si doterà di un sistema fiscale uniforme in tutti gli Stati ci saranno sempre coloro che fanno concorrenza fiscale sfrenata o comunque concorrenze in tutti i campi dove le società possono avere vantaggi, posizionandosi qui e là: Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Malta ne sono l’esempio, senza parlare della Svizzera che non fa parte dell’Unione pur essendo evidentemente un Paese europeo a tutti gli effetti”.