Gestire il ricambio generazione nelle piccole imprese con programmazione e professionalità è una necessità. Il 90% circa delle imprese del nostro paese ha meno di 20 dipendenti e, quindi, si regge sull’apporto lavorativo e manageriale dell’imprenditore (che ha fortemente personalizzato la gestione della azienda) e dei suoi figli che entrano nell’azienda di famiglia con la particolarità di non essere stati sottoposti ad alcun processo di selezione.
In queste condizioni spesso i figli dei piccoli imprenditori, quando assumono posizioni di vertice all’interno delle loro aziende, decidono di saltare a piè pari un “buon processo”, radicato semmai da anni, per agire semplicemente secondo un capriccio.
Prendiamo l’esempio, vissuto da chi scrive, del figlio di un imprenditore operante nel settore della ristorazione che era entrato nella governance dell’azienda. Aveva appena ereditato un team e subito licenziato il capo dell’unità che vantava la miglior performance economica e la miglior reputazione di gestione delle persone. Quando gli fu chiesto come era giunto a quella decisione, aveva risposto che non doveva una spiegazione a nessuno.
Spesso mi trovo a lavorare in aziende in cui si sta realizzando il ricambio generazionale con persone (i figli del fondatore) che agiscono come se le regole riguardino solo la gente comune e non si applichino a loro stessi.
Perché si verifica questa situazione?
Nel corso dei millenni si è sviluppata un’associazione euristica tra il rigetto delle norme di comportamento e la detenzione del potere: nel mondo delle piccole imprenditorie spesso osserviamo che le persone potenti solo perché “figli di…” sono capaci di ignorare ciò che ci si aspetta e fare ciò che gli pare.
Naturalmente, avendo il potere, in quel contesto la percezione diventa realtà.
L’effetto è che l’abitudine di ignorare le regole e di violare le norme crea effettivamente, in quelle piccole realtà, potere, per tutto il tempo in cui il giovane imprenditore riesce a cavarsela con tale comportamento.
E che dire di coloro che sono soggetti ai capricci di un capo imprevedibile? Pagano un prezzo enorme. Tale tipo di comportamento non fa engagement tra i propri collaboratori che si convincono che “il figlio del capo” sbeffeggi le convenzioni della società solo perché abbia potere di farlo.
Come ben chiarisce la letteratura psicologica sull’importanza acquisita, la nostra capacità di navigare nel nostro mondo con fiducia dipende da relazioni ragionevolmente prevedibili tra le azioni e le loro conseguenze. Quando le persone (o, se è per questo, cani, topi e persino pesci) si imbattono in un ambiente pieno di punizioni e ricompense incerte, incoerenti e distribuite a casaccio, si verificano tre cose.
Primo, la motivazione cala: se non possiamo influenzare in nessun modo il risultato, perché provarci? Secondo, l’apprendimento soffre per la mancanza di feedback coerenti: è possibile imparare a guidare la macchina se ad ogni istante il pedale dell’acceleratore e quello del freno si scambiano di posto? Sarebbe un compito impossibile.
E, terzo, lo stress va alle stelle: nei fatti, secondo le ricerche dell’epidemiologo britannico Michael Marmot, il livello percepito di controllo del proprio lavoro è un predittore importante di longevità e salute.
Le piccole imprese hanno di fronte un vero paradosso nella gestione del ricambio generazionale. Un comportamento capriccioso del giovanotto segnala il potere che i proprietari (non leader) perseguono e di cui spesso necessitano per mettere in atto cambiamenti significativi.
Ma questo, in un momento di cambiamento come quello che stiamo vivendo, impone un pedaggio ai dipendenti e potenzialmente mina la performance dell’organizzazione. I teorici dell’evoluzionismo hanno a lungo osservato che ciò che è bene per la sopravvivenza e il successo dell’individuo non coincide necessariamente con ciò che è bene per il gruppo. Il piccolo imprenditore dovrebbe riconoscere ed esplorare il dilemma che questo crea e non far finta che non esista.