Siamo ormai alla vigilia delle amministrative di Roma, Comune e Municipi, e possiamo dire che la campagna elettorale non è stata molto appassionante né per cittadini, né per i partiti e i candidati e neanche per i media. Fa impressione, trattandosi della Capitale d’Italia, due milioni e ottocentomila abitanti, un territorio grande come una provincia italiana.
Nessun dibattito televisivo tra i candidati sindaco, i pochi confronti pubblici disertati da uno o più concorrenti, programmi e slogan che spesso ricordano le tante promesse mai mantenute delle campagne precedenti, in primis quella, ormai stantia, del “cambiamento”.
Il vento che stava cambiando quando la neo eletta pentastellata Virginia Raggi festeggiava con le folle, 5 anni dopo è diventato una corrente d’aria tra le segrete stanze del Campidoglio, dove, archiviate le più democratiche comunarie, la sindaca e il suo entourage hanno scelto di candidare i fedelissimi, e, in aggiunta, nomi incastonati in quelle che Calenda ha definito le “liste a strascico”, una serie di liste civiche dal nome accattivante per calamitare consensi un tanto al chilo. Ecco allora “Roma Decide” formata da “personalità legate al mondo dell’imprenditoria”, “Roma ecologista”, “Sportivi per Roma” – sull’onda delle vittorie calcistiche e olimpioniche – e la meravigliosa “Con le donne per Roma”, che insieme alle donne candida anche uomini, che, a leggere i CV, non si capisce neanche perché debbano essere con le donne.
Curiosamente sul sito della sindaca uscente nessun link conduce ai siti con le informazioni delle liste a suo sostegno, nemmeno di quella civica. In compenso spicca la grande assenza, peraltro condivisa con gli altri candidati sindaco, di qualsiasi rimando alla provenienza e all’entità dei fondi per la campagna elettorale. Cinque anni fa sul sito della candidata Raggi comparivano due contatori che indicavano in tempo reale le donazioni raccolte e le spese sostenute, quest’anno si parla di soldi solo per chiederli.
Anche sul sito del candidato della coalizione di centrosinistra Roberto Gualtieri, uomo Pd, ex parlamentare europeo e ministro dell’Economia del Conte 2, non si citano le spese elettorali, né le liste a suo sostegno. Lo slogan che ha aperto la sua campagna affissioni e che apre il suo sito, “Roma. E tutti noi”, è piuttosto divisivo, visto che sottintende un “voi” o un “loro” che non si riconoscono nella Roma di Gualtieri (o magari semplicemente non lo conoscono), e sembra esprimere un richiamo/rimpianto a quel “popolo del centrosinistra” che cinque anni fa ha rotto le fila votando Raggi.
Uno slogan che echeggia il nostalgico “Roma Torna Roma” del perdente Giachetti del 2016, e come quello pare emblematico di un Pd romano che continua ad essere sempre lo stesso, un partito che non si è mai messo in discussione, né al proprio interno, né tantomeno con la città, neanche di fronte a una serie di sciagure. Non scalfito dalla vittoria di Alemanno del 2008, dall’impietoso rapporto Barca sul “partito cattivo”, dalla prematura interruzione della consiliatura Marino per mano del suo stesso partito, dalla strepitosa vittoria del Movimento 5 stelle a Roma, dalla inconsistente opposizione del Pd capitolino, il Partito Democratico continua a candidare sempre gli stessi, con qualcuno che si ferma per qualche giro o che approda a lidi migliori, e rare new entry.
Candidati scelti in modo sicuramente più democratico dei colleghi cinquestelle, con autocandidature e approvazione finale della direzione romana, ma che, come del resto in tutte le liste partitiche, si trovano in posizioni disuguali in partenza, dato che regna la legge del “chi raccoglie più voti”. Intendiamoci, legge irrinunciabile e democratica, ma che non risolve un’ambiguità di fondo, che riguarda come si conquista il consenso. Perché il voto d’opinione, che dovrebbe premiare quelli che ottengono la preferenza per le proprie idee e per il proprio impegno, è in realtà solo una parte del raccolto elettorale, che spesso – e vale naturalmente per tutti i partiti e movimenti – deriva dalle attività più o meno favorevoli a gruppi e categorie elettoralmente rilevanti.
Per questo, come Carteinregola, più che pesare i programmi elettorali, ci sembra importante conoscere e far conoscere i candidati – le loro vicende pregresse e i partiti che hanno alle spalle – piuttosto che fare affidamento sui tormentoni a partiti unificati sulla cura del ferro, sulla rigenerazione urbana ecc. Basti pensare alla promessa della trasformazione della ferrovia Roma-Lido in metropolitana, sulle scene elettorali dall’inizio degli anni 2000, nel programma della destra di Storace e del centrosinistra di Veltroni e Zingaretti, ospite fisso di tutti i programmi elettorali fino a oggi.
Anche se naturalmente non tutti i programmi sono uguali, soprattutto se si guarda ai grandi “rimossi” dal dibattito pubblico e elettorale della Capitale: come le mafie, che a Roma fanno affari da anni e che, specie dopo la pandemia, stanno mangiandosi molte attività produttive e commerciali nel disinteresse politico generale. Tema che ha un certo spazio nel programma di Gualtieri e anche di Calenda, seppure in questo caso riservato solo a quelli che vanno oltre ai sintetici punti dedicati alla “sicurezza”. Si parla di mafie principalmente per la destinazione dei beni confiscati nel programma Raggi, che vanta – giustamente – l’ormai epico abbattimento delle villette Casamonica, il cui merito va però anche alla Presidente municipale Lozzi, oggi candidata sindaco con la sua “Revoluzione Civica”.
Invece per il candidato sindaco del centrodestra Enrico Michetti la mafia a Roma non esiste. Non solo non ha sottoscritto il protocollo “Roma Senza Mafie” di DaSud e Avviso Pubblico, ma nel suo programma parla di “criminalità” non “organizzata” ma solo “ diffusa”, riferendosi a spacciatori, drogati e stranieri “costretti a delinquere” per necessità.
Un candidato scelto all’ultimo, probabilmente contando sulla sua popolarità radiofonica, che ha prima incuriosito i romani tappezzando la città di manifesti con un “Michetti chi?” sotto la sua faccia, ma che poi ha fatto ben poco per farsi conoscere dagli elettori, visto che ha disertato quasi tutti i confronti con i suoi concorrenti, tranne il primo, da cui è scappato a metà, e quello patrocinato da Il Messaggero dell’editore Caltagirone. Una serie di gaffe e fughe che l’hanno reso un candidato poco appetibile persino per la sua sponsor Giorgia Meloni, che l’aveva imposto a Salvini.
Ora, dopo qualche cartellone elettorale double face (da un lato la Meloni, sul retro Michetti) l’ufficio comunicazione ha optato per il faccione della leader di Fratelli d’Italia e il nome di Michetti piccolo piccolo, così come i suoi interventi sui palchi elettorali. Persino la sua stringatissima autobiografia sul sito è sovrastata da una roboante dichiarazione della Presidente di FdI.
Ciò nonostante pare che continui ad essere il primo nei sondaggi, il che forse si spiega con il voto di appartenenza di quelli che votano a destra a prescindere, per ideologia o per convenienza. Anche perché, a guardar bene nel minestrone del suo programma, qualche strizzatina d’occhio alle categorie imprenditoriali importanti si trova. A partire dalle mani libere all’iniziativa privata nell’edilizia, settore in crisi e da sempre molto influente nelle vicende romane. Punto che, secondo l’ex assessore all’Urbanistica di Raggi Paolo Berdini, che si candida con la sua lista Roma ti riguarda, accomunerebbe centrodestra e centrosinistra: conoscendo i precedenti delle Giunte Veltroni e più recentemente della maggioranza regionale di centrosinistra – proroga piano casa Polverini, legge di rigenerazione urbana, piano territoriale paesistico regionale bocciato dalla Consulta – il rischio che anche un centrosinistra al governo della città rispolveri vecchi schemi cementiferi è sempre dietro l’angolo, anche se rassicura in parte la presenza di varie liste a sostegno del candidato Pd con etichette verdi e ecologiste, vecchie e nuove.
Mentre a destra e a sinistra si cerca di coagulare il consenso anche sui partiti, diversa è la strategia di Carlo Calenda, ex ministro allo Sviluppo economico di Renzi e Gentiloni, dal 2019 eletto europarlamentare nelle liste Pd da cui è uscito per fondare un partito tutto suo, “Azione”. Un partito nuovo con un “uomo solo al comando”, che a Roma, dove ha deciso di candidarsi Sindaco, ha presentato una unica lista civica “lontana dai partiti” ma che in realtà contiene anche qualche deluso (o trombato) dai partiti, soprattutto dal Pd, a cui, nei Municipi più centrali e benestanti, rischia di sottrarre molti voti.
Un politico che da un anno semina manifesti presentandosi con l’aria truce e le braccia conserte con lo slogan “Roma, sul serio”, giocando sulla sua immagine di “manager” che risolve i problemi con efficienza, quasi che si candidasse a dirigere un’azienda. Ed evidentemente tale messaggio sa fare breccia sui tanti delusi dalla politica e/o dal degrado cittadino, che ormai vedono un Sindaco come un buon amministratore di condominio, un “tecnico” che risolve i loro i problemi più terra terra, e non un uomo o una donna con un mondo alle spalle, una storia, una visione del futuro che non può che essere politica.
Molti, in questi giorni, sapendo del lavoro di Carteinregola di raccolta delle informazioni elettorali, mi chiedono pronostici: esercizio difficile, per quanto, come associazione, la nostra “bolla” sia più ampia di quella dei normali elettori, che registrano le proprie impressioni in un ambiente che è un po’ come gli algoritmi di Facebook: mette in contatto persone che la pensano più o meno allo stesso modo. Provando ad allungare lo sguardo sulle tante “bolle” che compongono la città, il punto interrogativo e decisivo è sempre quello dei tanti romani che abitano nei territori più lontani, assai più popolosi del centro e dei Parioli, che continuano a vivere con fatica ogni necessità, dallo spostarsi al trovare asili per i propri figli, circondati da quartieri desolati, dove il verde è quello che nasce spontaneo dappertutto e dove fa paura tornare a casa la sera da soli.
Queste persone difficilmente leggeranno pagine e pagine di programmi elettorali. E se lo facessero probabilmente si arrabbierebbero ancora di più nel ritrovare molte delle solite proposte, che sui loro territori non arrivano mai. Ma la rabbia – o la disillusione – maggiore riguarda quei politici che si ricordano delle periferie solo quando c’è la campagna elettorale, o in qualche convegno senza nessuna conseguenza. Ecco il boccino adesso ce l’hanno loro, quei romani di “serie B”, davanti a quei volti che si affacciano sorridenti dai manifesti e dai social. Speriamo che prevalga l’ottimismo della volontà.