Moda e Stile

Valentino, i modelli lasciano la passerella e scendono in strada tra i café di Parigi. Pierpaolo Piccioli: “Ho voluto sporcare di vita la Maison” – FOTO

di Ilaria Mauri
Valentino, i modelli lasciano la passerella e scendono in strada tra i café di Parigi. Pierpaolo Piccioli: “Ho voluto sporcare di vita la Maison” – FOTO

La sacra moda di Valentino che esce dal suo “Tempio” e scende in strada per “sporcarsi di vita”. È questa l’immagine potentissima che Pierpaolo Piccioli lancia con la sua sfilata Valentino Rendez Vous Primavera Estate 2022 che sancisce il ritorno alla fashion week di Parigi post-pandemia. I modelli che escono dal Carreau du Temple e continuano a sfilare lungo il marciapiede, tra i tavolini dei café, liberando lo spirito della Maison romana per le vie di Parigi, segnano definitivamente il cambio di passo che il direttore creativo ha deciso di imprimere al brand. Non a caso questa collezione-manifesto ha origine negli archivi di Valentino, un heritage di cui Piccioli ha fatto sapientemente memoria ma non zavorra, rielaborandolo con la potenza della sua immaginazione per lanciare il brand nel futuro. Un processo figlio del lockdown, iniziato nel marzo 2020, in parte già attuato con l’Act Collection e l’Alta Moda Des Ateliers ma che trova il suo pieno compimento in questa collezione: “Sono successe delle cose delle quali occorre essere consapevoli. Non credo che ritornare al passato perché ci rassicura sia un gesto che serve per vivere oggi”, spiega ai giornalisti lo stilista.

Così, ha scelto cinque pezzi iconici di Valentino Garavani e li ha riletti con rigore filologico per riproporli in chiave contemporanea, un viaggio nel tempo e nello spazio che li rende magicamente. portatatori di un messaggio universale. “Ho rieditato questi pezzi esattamente come erano perché vederli così sulla strada è importante -prosegue Piccioli -. Non vuol dire fare street style, vuol dire portare Valentino in strada e sporcarlo di vita. I capi possono essere esattamente gli stessi ma indossati in maniera diversa, da persone diverse, diventano altro”. C’è l’iconico cappotto maculato abbinato a un croptop con shorts e anfibi; l’abitino bianco di Marisa Berenson indossato da una modella di colore; e ancora, i lunghi abiti a fiori fotografati da Chris von Wangenheim diventano la suggestione che dà vita a stampe e fantasie floreali declinate ora in camicie over da giorno e ora in preziosissimi abiti da sera. È omaggio all’archivio anche il denim, portato in passerella per la prima volta da Valentino nel 1985 e ora tornato protagonista accostato a camicie bianche e preziose: “Ho voluto shiftare un brand che nasce dalla Couture nell’oggi, mantenendone i codici ma abbracciando una contemporaneità diversa. Di passare da un concetto di esclusività a uno di community. Voglio che Valentino si riempia di vita. In questo momento la bellezza è fatta di umanità non di perfezione estetica. Prima le persone che vestivano Valentino erano quelle che avevano un certo tipo di vita, ora condividono invece dei valori. Non è una bellezza fisica, ma di umanità, di persone diverse: questi capi li possono indossare uomini e donne indifferentemente, a prescindere dalla taglia o altro”. E basta guardare agli ultimi red carpet per trovarne conferma: Valentino ha vestito Zendaya ma anche Frances McDormand e Whoopi Goldberg, solo x citarne alcuni.

Per attuare questo processo Pierpaolo Piccioli è partito dalle diapositive dell’epoca, dal ricordo e dalle emozioni che quelle immagini hanno sedimentato in lui, e gli ha dato nuova vita: una risignificazione che va all’essenza di questi capi e la anima, facendola aderire perfettamente all’identità sempre unica di chi la indossa. Per accorgersene basta guardare le etichette di questi capi, dove è impressa la miniatura di quel che era originariamente il pezzo: “Quando ero piccolo, non avevo la nonna che vestiva couture, la couture l’ho conosciuta quando sono arrivato da Valentino, ma l’ho sempre immaginata e sognata attraverso le foto. In archivio, quando ho visto i pezzi da vicino, non ho avuto la sensazione che la mia immaginazione coincidesse con la realtà dei pezzi. L’immaginazione mi faceva immaginare altro oltre ai vestiti: il frame prima e il frame dopo quella foto. Perciò ho capito che non dovevo tornare a guardare gli abiti ma tenere quella immaginazione, quell’emozione che le foto mi danno rispetto ai capi. Tornando a guardare i capi, ti rendi conto che sono belli, che valgono un momento storico, ma in realtà è il modo in cui le persone li portano e si esprimono attraverso questi che possono cambiarli. Perciò non ho sistemato i colli, le lunghezze, le spalle… Proprio perché era un’estremizzazione del concetto dell’archivio non tanto come capo, ma come momento storico citato a oggi“.

L’inversione di segno è tanto più lampante, e potente, se si guarda al tessuto chiave di questo guardaroba: il taffetà. Il materiale simbolo della Couture viene qui sdradicato completamente, lavato per essere privato di quella patina di preziosità e diventare ora camicia oversize, ora bermuda, ora giacca. Anche cappe e mantelli si distaccano dall’imponenza dell’Alta Moda per diventare cifra di stile di un vestire quotidiano. Questo procedimento, unito alla purezza dei tagli e delle linee che costituiscono gli abiti (non ha caso nel suo moodboard Piccioli tiene sempre almeno un quadro di Fontana, ndr) è ciò che più fa emergere il designer che c’è in Pierpaolo Piccioli: solo lui poteva infatti creare abiti da sera raffinatissimi da due semplici pannelli di stoffa sovrapposti ma, soprattutto, reinventare il capo simbolo di questa collezione, la camicia. È oversize e decostruita così da essere trasformista e versatile: giocando con i bottoni delle maniche e dell’allacciatura la si adatta al proprio corpo e alla propria identità. E poi il colore, anzi, i colori, quelli brillanti a cui ormai Pierpaolo ci ha abituato. “Mi piace non aggiungere parole a quello che faccio – conclude Piccioli -. Credo che l’immagine abbia una potenza molto forte: se l’idea di uguaglianza che guida la mia moda appare ben presente in passerella, è inutile aggiungere le parole perché l’immagine parla da sola. È questo che fa diventare radicale il messaggio che voglio dare”.

Un messaggio arrivato forte e chiaro a chi ha vissuto l’esperienza della sfilata dal vivo: vedere questi modelli avviarsi verso la porta e uscire in strada, nella sera, sotto una pioggerellina battente, passeggiando tra i café storici del Marais dove sedevano ospiti dell’evento ma anche semplici clienti è stato qualcosa di semplicemente incredibile. Un’esperienza totalizzante, amplificata dalla location: dall’ambientazione ricreata all’interno del grande spazio dell’ex mercato generale, i modelli passavano a quella reale, assolutamente vera, dei café che circondano il Carreau du temple. Un passaggio altamente simbolico, tanto più se si pensa a come questa commistione tra strada e passerella sdradichi un altro tabù della moda, l’esclusività (a Parigi poi). Chiunque passasse di lì poteva assistere e partecipare al défilé: se la moda deve davvero “sporcarsi di vita” cosa c’è di più inclusivo, di più autentico? Chapeau.

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