di Lucia Borroni

Ogni anno, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, centinaia di migliaia di persone seguono le immagini trasmesse dalle fototrappole situate in punti strategici – fiumi particolarmente ricchi di salmone, ad esempio – nel Parco Nazionale Katmai, in Alaska.

È la Fat Bear Week: gli orsi si stanno preparando al letargo andando in iperfagia, e da tutti gli States e oltre iniziano le votazioni che designeranno l’orso, o l’orsa, che ha messo su più peso per affrontare il letargo. Vengono confrontate le immagini dell’orso snello durante l’estate con quelle dello stesso orso pronto a ibernarsi; non manca un tocco di politically correct perché si tiene conto che le femmine possono ingrassare meno dei maschi, avendo i cuccioli a cui badare e quindi meno tempo per foraggiare. La vincitrice dell’edizione 2019 è stata l’orsa Holly. Ci si può connettere e votare sul sito del Parco. Nell’edizione 2020 ci sono stati più di 550mila voti online.

Quando ho saputo della Fat Bear Week, ho pensato a un’americanata. E invece ho scoperto una cosa direi tenera e affettuosa, un osservare il re della foresta da lontano e con rispetto, ma con grande partecipazione emotiva. La storia degli orsi e la nostra si intrecciano. Nel suo L’orso. Storia di un re decaduto, Michel Pastoureau scrive che per migliaia di anni il re degli animali per gli europei è stato proprio lui, il signore delle faggete. Ce lo mostrano le pitture rupestri della grotta di Chauvet, di oltre 30mila anni fa, dove troviamo insieme anche ossa di orso e ossa umane.

Oggi l’orso non è neanche più il re dei peluches, soppiantato da improbabili unicorni rosa. Quanto a quelli veri, ci stiamo affrettando a farli sparire: bracconati, avvelenati, rinchiusi in inaccettabili recinti di cemento, sedati e castrati.

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