Ventiquattro donne indiane della casta più disgraziata dei dalit nell’Uttar Pradesh rilanciano un giornale online e diventano giornaliste d’inchiesta. Già la notizia (nella notizia) dovrebbe far saltare sulla sedia. Ma come? Una roba del genere, tra l’altro, nemmeno è presente nell’occidente più emancipato? Eppure Khabar Lahariya, questo il nome della testata fondata come settimanale cartaceo nel 2002, è stata rinnovata con una versione online tutta al femminile nel 2013 e in pochi anni ha registrato visualizzazioni di massa. Questo, e anche qualcosina in più, è quello che raccontano i registi Sushmit Gosh e Rintu Thomas nel documentario Writing with fire (presentato e apprezzato al prestigioso Sundance festival) in queste ore visibile a Ferrara tra i titoli di Mondivisioni – i documentari di Internazionale 2021.
L’eccezionalità giornalistica femminile che si fa presto strada e si afferma voce impolverata rurale di villaggio in villaggio, controinchiesta quotidiana di chi di voce ne ha poca – leggasi oppressione delle caste, sfruttamento mostruoso dei lavoratori, e soprattutto cancellazione del pensiero e della vita delle donne – è il centro magmatico, ribelle, pericolosissimo di un lavoro di ricomposizione documentario che come in una mimetica mise en abyme rifulge delle immagini dei reportage delle ragazze di Khabar Lahariya. Le denunce di stupro che finiscono nel nulla, le inchieste delle morti sul lavoro che evaporano come neve al sole, ma anche interviste spesso delicate a leader politici (maschi) di quel partito indù –il BJP – che tra il 2017 e il 2019 conquista prima l’Uttar Pradesh poi l’intera India.
Ecco allora che Writing with fire assume un doppio passio etico ed umano: da un lato c’è l’atto della denuncia attraverso lo strumento dell’indagine giornalistica; dall’altro c’è la parallela costruzione di un’emancipazione sociale, di un’identità professionale inedita, complessa, articolata, malvista in generale, di alcune donne in una società religiosamente maschilista. Le scintille che scaturiscono da questo sfregare bordoni narrativi documentaristici si percepiscono ad ogni curva degli accadimenti. Suneeta e Meera Davi, in fondo, sono le giornalista su cui Gosh e Thomas puntano definitivamente la loro attenzione dopo aver descritto l’impatto della conoscenza delle nuove tecnologie e della lingua inglese tra i luoghi più isolati e poveri dell’India. Suneeta è un autentico pungolo sulla mafia delle estrazioni minerarie vicine al suo villaggio (lei stessa da bambina scariolava pietre su pitere a 0,15 dollari a viaggio), mentre Meera ha come un approccio più da cronaca e costume politico proprio mentre il BJP induista si afferma. Pubblico e privato, insomma. Incrocio ficcante, onnicomprensivo, totale di un percorso di crescita personale ma non ancora collettivo. Loro, le ragazze, lavorano sì per “trasformare la società”, ma la “madre India” (paradosso al femminile di una società tremendamente tradizionalista) è un moloch impressionante fatto di corruzione finanziaria e immobilità culturale. Un sassolino nell’ingranaggio del potere, insomma. Esempio onesto al di là di ogni retorica buonista. Suneeta e Meera con quegli smartphone sempre accesi sono tutti noi.