Gli equilibri nell’ex Jugoslavia vacillano, messi a dura prova da dichiarazioni di intenti e da leggi che ricalcano uno stato di tensione permanente. Nel trentesimo anniversario dall’inizio del conflitto nei Balcani, rivendicazioni identitarie e distorsioni storiche sembrano scandire un tempo che resta in realtà immobile. La preoccupazione più recente proviene dalla Republika Srpska della Bosnia Erzegovina, entità a maggioranza serba che compone il Paese insieme alla federazione croato-musulmana, dalla cui capitale de facto Banja Luka il membro serbo della presidenza tripartita Milorad Dodik ha annunciato la volontà di creare un’armata indipendente da quella federale.
La sua intenzione di revocare “il consenso all’esercito congiunto”, oltre che una minaccia per il futuro, segna il fallimento di quanto costruito in passato. L’unificazione etnica dei militari della Bosnia Erzegovina risale infatti al 2006, anno in cui si rinunciò all’idea -troppo onerosa – di continuare a mantenere distinti gli eserciti delle due entità statali. Si accettò il fatto che non avesse senso poiché si trattava di soldati che lavoravano, almeno teoricamente, per gli interessi della stessa bandiera. Benché il processo di accorpamento fosse avvenuto sotto la spinta della comunità internazionale, la nascita di una identica divisa per soldati serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani) fu accolta da molti come un segnale di autentica speranza. Negli anni, tuttavia, non si è assistito a ulteriori miglioramenti. Al contrario, i proclami politici di oggi offrono poco spazio a illusioni rispetto a una vera riconciliazione.
Le accuse tra le fazioni hanno assunto una cadenza ancor più fitta dopo lo scorso luglio, quando l’ormai ex Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Valentin Inzko, ha fatto approvare una legge che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica. Il riconoscimento della gravità della mattanza che nell’estate del 1995 portò alla morte di circa 8mila bosniaci musulmani rappresenta uno dei temi più difficili da affrontare nel Paese. In merito alla vicenda, il confronto tra le parti si è spesso arenato. Anche per questo i serbi non hanno apprezzato la frettolosa soluzione del problema adottata da Inzko proprio al tramonto dei suoi 12 anni di mandato. L’affare è ora nelle mani di Christian Schmidt che ha assunto la carica dal primo agosto e a cui tocca fare i conti con un presidente della Republika Srpska che per rappresaglia ha deciso di boicottare i lavori delle istituzioni bosniache, minacciando di impedirne ogni mossa finché la legge anti-negazionisti non sarà ritirata.
Dodik tuttavia non agisce in solitaria. A offrire sostegno ai riverberi secessionisti che si innalzano dalle colline di Banja Luka c’è la Serbia di Aleksandar Vucic, anche lui alle prese con una campagna volta a rendere più robusto lo spirito patriottico. Una delle misure più discusse e adottata in modo speculare da Dodik riguarda l’obbligo dell’uso dell’alfabeto cirillico nella televisione di Stato, nelle comunicazioni pubbliche di organi e aziende statali. Si tratta di una legge vera e propria, con tanto di multe pesanti per i trasgressori (oltre 4mila euro) e di agevolazioni fiscali per le realtà private che rinunceranno spontaneamente all’uso del nemico alfabeto latino. Introdotta a partire dal 15 settembre, è solo una delle iniziative che hanno costellato l’agenda di Vucic negli ultimi mesi. Va ricordato anche l’inno nazionale cantato nelle scuole per inaugurare il nuovo anno scolastico, l’uniformità dei programmi scolastici in Serbia e in Republika Srpska (per le materie più importanti, tra cui storia e letteratura) o l’adozione della “Giornata dell’unità, della libertà e della bandiera nazionale” celebrata da “tutti i serbi del mondo”. L’impegno profuso a favore della cosiddetta “serbitudine” è stata giustificata da Vucic con la volontà di proteggere la tradizione e gli usi del suo popolo. In realtà, si tratta di mosse che hanno poco di culturale e molto di politico. Con una strategia pericolosamente simile a quella di 30 anni fa. Convincere gli elettori che i nemici sono schierati ovunque e che lui e Dodik sono gli unici uomini forti in grado di ricacciare indietro ogni minaccia sarà utile nel 2022, quando con le nuove elezioni si determinerà non tanto il destino dei valori patriottici, quanto quello delle loro carriere politiche.