Protecting the environment and safeguarding the people in our workforce and surrounding communities is essential to our long-term success.
Oil Spill Prevention and Response Plan (Osprp) – Beta Unit Complex
Non ce n’è una, di azienda petrolifera, che scriva da qualche parte che dell’ambiente non gliene importi nulla. Di affermazioni come quella citata in apertura, che si può leggere nell’Osprp del Bata Unit Complex (il piano di sicurezza dell’azienda che gestisce un gruppo di piattaforme al largo di Long Beach, California) se ne trovano migliaia. Poi, però, qualcosa finisce sempre per andare storto.
Da sabato scorso, una “perdita” a un oleodotto che porta il petrolio dalla Beta Unit a Long Beach sta devastando un bel pezzo (turisticamente pregiato) della costa californiana. L’idea balzana che petrolio e turismo possano andare a braccetto è andata a ramengo un’altra volta. Pesci morti e catrame ovunque non sono un gran biglietto da visita. A dispetto di tutti i piani di prevenzione e sicurezza, sono finite in mare tra le 400 e le 500 tonnellate di greggio (fare stime è sempre difficile in questi casi) e nessuno ha ancora ufficialmente dichiarato che la perdita è stata arrestata.
Che poi quel petrolio sia uno dei fattori principali della crisi climatica che ci minaccia è un’altra storia: lo sanno tutte e tutti, ma nel mondo dei combustibili fossili funziona spesso che chi può è bene che taccia, o almeno faccia finta di occuparsi del problema, ma senza fare nulla di serio. È quel che si chiama greenwashing: usanza ormai di moda, che domina gran parte della comunicazione pubblica. Queste cortine fumogene sono all’ordine del giorno: da noi, nelle ultime settimane, vari esponenti governativi hanno cercato di sbolognarci patacche come il “nucleare portatile”, la “fusione nucleare” o l’idrogeno blu, per non parlare del gas fossile, come “soluzioni” ai problemi climatici. Mentre, nel frattempo, di fatto davano il via libera a nuove trivellazioni offshore.
E poi ci sono le aziende che investono milioni in pubblicità piene di balle. Sono balle tinte di verde, ben confezionate, ma di cui dobbiamo disfarci al più presto se vogliamo fare sul serio per contrastare l’emergenza climatica. Per questo è appena partita una proposta di legge comunitaria di iniziativa popolare (Iniziativa dei Cittadini Europei – ICE) che chiede all’Ue di vietare questa scandalosa manipolazione dell’opinione pubblica.
Di cortine fumogene è pieno anche il “caso” del disastro in California. Per un bel po’ non si è capito quale “tubo” si fosse rotto e, quindi, chi fossero i responsabili. Adesso sappiamo che si tratta di una condotta di oltre 20 kilometri che porta petrolio dalla piattaforma Kelly fino a Long Beach. Kelly non è una piattaforma estrattiva: serve a “processare” il greggio, separandolo da acqua e gas. Non è chiaro se questi trattamenti (che includono un riscaldamento a 60 gradi centigradi) servano anche a “fluidificare” il petrolio in questione che, in California, tende a essere molto “pesante” e viscoso: il 68% della produzione dello Stato è classificata come “olio pesante”.
In realtà, la qualità del greggio in California è così scarsa che sta mettendo seriamente in dubbio la “vocazione verde” di uno Stato che si reclamizza come amico dell’ambiente. Sebbene sia in diminuzione, la produzione di greggio californiano “consuma” tantissima energia, al punto che nel complesso il “costo energetico” di questo petrolio è peggiore delle famigerate sabbie bituminose (o scisti bituminosi) del Canada. Per produrre un barile equivalente di greggio, gli scisti canadesi emettono 90 kg di CO2, mentre la media della produzione californiana è di 98 kg di CO2.
Evidentemente, smettere di estrarre petrolio (a cominciare dai pozzi più pericolosi, come quelli offshore, e più energivori) è l’unica cosa sensata da fare. Ma per ora neppure la California ha imboccato questa strada. Anzi. Un’indagine del Washington Post rivela che l’azienda proprietaria della Beta Unit, Amplify Energy, pochi mesi fa ha ricevuto un “prestito statale” di cinque milioni e mezzo di dollari come “sostegno” a seguito dell’emergenza Covid-19. Una sorta di recovery plan per petrolieri che ha fatto però scalpore perché l’azienda (peraltro con recenti disavventure finanziarie) sarebbe nota per aver comprato i suoi stessi titoli (per un valore di oltre 26 milioni di dollari nel 2019) con l’obiettivo di aumentare la sua quotazione in borsa.
Ma com’è possibile che un’azienda così poco credibile sia riuscita a realizzare (molti decenni fa…) un progetto tanto ambizioso come lo sfruttamento della Beta Unit, a circa 20 kilometri al largo della California? Semplicemente, all’epoca la Amplify Energy non esisteva. La Beta Unit fu esplorata e sfruttata da Shell a partire dagli anni Ottanta e la piattaforma Eureka (una delle tre presenti) fu uno dei primi “pozzi profondi” mai trivellati, sbandierato come un grande successo tecnologico. Che adesso si è trasformato nell’ennesimo disastro.