Economia

Nuova via della seta, il maxi piano infrastrutturale della Cina ha affossato i conti di 42 Paesi poveri con debiti per 385 miliardi di dollari

Uno studio a cura di AidData, istituto di ricerca dell’università William & Mary, mostra che la montagna di passivo legata alle opere realizzate da Pechino ha determinato per molti Stati poco sviluppati un indebitamento superiore al 10% del Pil. E il 35% delle iniziative è incappato in scandali legati a corruzione, violazione delle normative sul lavoro, rischi ambientali e proteste pubbliche. In Pakistan i progetti sono diventati bersaglio di attentati del movimento separatista guidato dall’Esercito di Liberazione del Belucistan

Se è vero che ogni medaglia ha due facce, quella che sta dietro gli investimenti cinesi in giro per il mondo non sorride, tutt’altro. I numeri parlano chiaro: i faraonici progetti infrastrutturali che la Cina ha portato avanti negli ultimi anni hanno infatti generato debiti pari a 385 miliardi di dollari per i paesi coinvolti. Non solo: il 35% delle iniziative targate Belt and Road Initiative, le Nuove Vie della Seta che Xi Jinping ha annunciato nel 2013, è incappato in scandali legati a corruzione, violazione delle normative sul lavoro, rischi ambientali e proteste pubbliche. Un dato che, va detto, scende invece al 21% guardando alle opere realizzate al di fuori dell’ombrello BRI.

A dirlo è uno studio appena pubblicato, a cura di AidData, istituto di ricerca dell’università statunitense William & Mary. Il team di ricercatori non deve aver avuto vita facile nel cercare di orientarsi nel mare magnum di iniziative di Pechino. Anche solo limitando il calcolo al periodo 2000-2017, quello considerato nell’analisi, i numeri sono infatti giganteschi: la Cina ha messo a terra 13.427 progetti infrastrutturali in 165 paesi, per un investimento complessivo di oltre 840 miliardi di dollari. La montagna di passivo legata alle opere realizzate da Pechino – come strade, ponti, porti, edifici pubblici – pesa soprattutto sulle spalle di 42 paesi a reddito medio e basso, che si trovano ad avere debiti nei confronti della Cina superiori al 10% del loro Pil, un’esposizione che in alcuni casi può risultare difficile da gestire (anche politicamente). Dopo il lancio della BRI questa difficoltà è oltretutto aumentata. Ciò è legato al fatto che prima del 2013 i prestiti venivano versati direttamente agli Stati, mentre ora i crediti elargiti dalla Repubblica Popolare sono diretti per il 70% a organismi che operano a cavallo tra il settore pubblico e quello privato, creando ulteriore caos nelle finanze pubbliche di paesi che spesso non brillano per trasparenza amministrativa.

Guardando la mappa della penetrazione della BRI a livello globale, emerge come il paese che vede il maggior numero di progetti in corso di realizzazione sul proprio territorio sia la Cambogia (82 opere) ma anche come, a livello di valore complessivo, a farla da padrone sia il Pakistan (con infrastrutture in corso di realizzazione per 27,3 miliardi di dollari), seguito da Indonesia (20,3 miliardi) e Kazakistan (12,1 miliardi). E sempre il Pakistan guida la classifica dei territori con il più alto numero di opere (10, per un controvalore di 5,7 miliardi di dollari) finite sotto i riflettori per scandali legati a controversie di varia natura.

Non è un caso, quindi, che sia proprio il paese descritto nelle ultime settimane come il deus ex machina del caos afgano quello in cui la Cina sta avendo i maggiori grattacapi. Alleato di ferro di Pechino nella regione, il Pakistan è al centro di una delle spine dorsali della BRI, che va sotto il nome di China-Pakistan-Economic-Corridor (CPEC). Iniziativa che ha nel porto di Gwadar, hub logistico della regione centro-meridionale del Belucistan, uno dei suoi snodi fondamentali. Questa grande esposizione ha però fatto dei progetti sponsorizzati dalla Repubblica Popolare e delle maestranze cinesi i bersagli ideali per il movimento separatista guidato dall’Esercito di Liberazione del Belucistan. Con attentati che si susseguono a ritmo regolare, come quello compiuto nel nord del paese a fine luglio, quando un autobus è stato fatto esplodere, uccidendo anche nove lavoratori cinesi impegnati nella realizzazione di una diga.

Il Belucistan, nonostante la sua ricchezza in termini di risorse naturali, è la regione più povera e arretrata del Pakistan e ha quindi un disperato bisogno di investimenti. Ma questo non ha impedito al malcontento verso la Cina di serpeggiare tra ampi strati della popolazione locale, alimentato anche dalle controversie legate ai progetti cinesi. Risentimento che viene sfruttato dai separatisti locali per mettere ancora di più nel mirino la CPEC, la cui realizzazione definitiva renderebbe sempre più aleatorie le loro mire indipendentiste.

Il sentimento anticinese non riguarda però solo il Pakistan. Se in quest’ultimo la sinofobia legata alle mire economiche di Pechino si salda al separatismo, in Kazakistan essa viaggia in parallelo all’avversione generata dal trattamento riservato dalla Cina agli Uiguri dello Xinjiang, di cui molti sono di etnia kazaca. La diffidenza dei cittadini kazachi nei confronti della Repubblica Popolare ha germogliato nel corso degli anni. Nel 2016, ad esempio, si scatenarono proteste dopo la ventilata possibilità che ai cittadini stranieri venisse garantita la possibilità di affittare terreni agricoli per un periodo fino a 25 anni. Chiara la paura della popolazione, quella di diventare letteralmente un terreno di conquista per gli imprenditori cinesi al di là del confine. D’altronde il Kazakistan, paese da cui Xi Jinping annunciò il lancio della BRI, ha solo 18 milioni di abitanti distribuiti su 2,7 milioni di km quadrati di territorio, mentre la Cina ne conta ben 1,5 miliardi su 9,5 milioni di km quadrati. In numerose città kazache si tengono ormai regolarmente proteste, cosa rarissima per un paese profondamente autoritario, che hanno come obiettivo la politica di investimenti cinese e il trattamento riservato alla minoranza musulmana dello Xinjiang. Per capire quanto Pechino sia preoccupata per questa situazione, basti pensare che a inizio settembre le autorità kazache hanno impedito a un ricercatore russo-statunitense, specializzato proprio nello studio della repressione dei musulmani cinesi a opera della Repubblica Popolare, di entrare nel paese.

Come sottolineato anche da Brad Parks, uno degli autori della ricerca sugli investimenti cinesi, la Cina presto dovrà fare i conti con una competizione infrastrutturale serrata, considerando ad esempio i programmi Build Back Better World Initiative del G7 e Global Gateway Initiative dell’Unione Europea, quest’ultima presentata proprio come alternativa alla BRI. I paesi in via di sviluppo potrebbero quindi aver presto la possibilità di scegliere il proprio partner finanziario per la realizzazione delle numerose opere di cui hanno bisogno e non è detto che guardino a Pechino.