Messi in fila, i fatti non danno adito a dubbi: il risultato dei Cinquestelle è assai deludente seppure in linea con le previsioni. E’ questa seconda considerazione la più insidiosa per il Movimento. Perché se è vero che mai il voto amministrativo li ha premiati, fatta eccezione per ciò che successe cinque anni fa e che sembra già il secolo scorso, è anche certo che scendere sotto la soglia della sopravvivenza, com’è il dato di Milano e di altre grandi città, è oltre l’immaginabile.
Fatto numero due: è il Movimento ad aver bisogno di Giuseppe Conte più che l’ex premier del Movimento. Questa seconda verità è certificata dalle piazze che si sono riempite perché c’era lui. L’effetto Conte però non sarà eterno e costa ai Cinquestelle una revisione profonda della propria identità, la messa in discussione della sua terzietà, l’abbandono di ogni velleità di fare maggioranza da solo e anzi di imboccare la strada di un’alleanza con il Pd in cui sembra quest’ultimo a dare le carte.
È un costo salato? Non c’è alcun dubbio. È un costo sostenibile? All’apparenza sembrerebbe di no. E qui c’entra Virginia Raggi.
Fatto numero tre: la sindaca di Roma ha dato prova di avere un gran carattere ma di essere una pessima stratega. Il suo discorso di commiato, diciamo così, era intriso di un risentimento che a volte pareva ben oltre l’inimicizia, proprio nei confronti dei suoi stessi compagni di avventura, lontani politicamente e fisicamente da lei (Conte, Di Maio e Fico hanno festeggiato a Napoli la vittoria del loro candidato, Gaetano Manfredi).
Raggi ha però parlato come se avesse vinto una battaglia campale alterando la realtà: ha infatti perso e purtroppo per lei ha perso anche di brutto. Sindaca uscente e quarta dei quattro accreditati, ultima tra i più forti. Più di trenta punti in meno, migliaia di voti bruciati e, soprattutto, rasa al suolo la sua idea che Roma fosse contendibile.
Raggi è una donna forte e non nutro nessun dubbio che si sia impegnata allo spasimo per dare il meglio di sé. Ma Roma questo meglio non l’ha visto e anzi l’ha combattuto. Roma, nella maggioranza, le è stata ostile. A differenza di Torino, che pareva governata con più sicurezza e disponibilità, ma dove Chiara Appendino, la sindaca uscente, ha rifiutato di ricandidarsi.
Due scelte che hanno esposto il Movimento al dazio di uscire sconfitto su ambedue i fronti. E dire, come ha spiegato Raggi, che gli elettori non sono “mandrie al pascolo” ma subito prima e subito dopo spiegare che quei voti sono solo suoi, come davvero ne fosse esclusiva proprietaria, è una contraddizione logica e formale. E ancor di più l’uso stizzito della prima persona singolare in un movimento che dovrebbe avere il noi come orizzonte comune ha l’odore acre della vendetta.
Raggi certo può negare ogni appoggio a Gualtieri, fare anche di più: può contraddire la linea di Giuseppe Conte e magari intestarsi l’opposizione interna ed esserne leader. Ma sarà una corsa verso l’oblio.