Nell’abituale dibattito su chi ha vinto e chi ha perso, che si ripropone inevitabilmente a ogni tornata elettorale, si può indicare con sufficiente certezza il vero sconfitto in queste elezioni amministrative dell’ottobre 2021: la capacità della politica di dare rappresentanza alle domande del corpo sociale. Come ne offre palese dimostrazione il dato che la metà degli elettori non ha ritenuto opportuno recarsi alle urne.
Al netto di un 10-15% di assenteismo fisiologico, la stragrande maggioranza degli elettori dimostra palesemente, con il proprio comportamento, di non identificarsi in nessuna delle offerte disponibili. Secondo la vecchia teoria a ‘doppia valenza’ della “Voce” di Albert Hirschman – si tratti dell’acquirente potenziale di beni/servizi o del cittadino cui vengono sottoposti programmi di partito – le opzioni disponibili sono soltanto tre: lealtà (riconferma delle precedenti scelte), protesta o defezione. E, in tutta evidenza, stavolta la Voce degli italiani interpellati ha emesso un responso chiaramente maggioritario: defezione.
Ora gli aruspici e gli auguri che interpretano i trend del consenso, come si trattasse di viscere fumanti o volo degli uccelli, si scervelleranno nella ricerca di possibili accorpamenti per vincere i ballottaggi. A Roma come Torino. Gli spin doctors affastelleranno strategie per consentire il recupero di un voto presunto in libera uscita.
La mia personale opinione è che si tratti di operazioni di tamponamento e imbellettamento nell’impossibilità di cogliere il senso reale dell’accaduto: il discredito del panorama politico vigente agli occhi di larga parte degli italiani, alla ricerca di una radicale alternativa di sistema. Non un giocatore più o meno accattivante nel campo perimetrato di questa politica, bensì un soggetto che dia garanzie di incarnare Altrapolitica (quello che i mazzieri e i megafoni della vecchia politica, delle Caste degli affarismi, stigmatizzavano come anti-politica). Dunque, non giochetti ma domanda forte e alta di una svolta radicale effettiva.
Il motivo per cui in questi ultimi anni le elezioni avevano premiato nuove entrate che sembravano mostrare tratti di effettiva discontinuità rispetto a filosofie, pratiche e Dna giudicate come assolutamente ripugnanti. Un’apertura di credito basata sulla credibilità.
Il motivo per cui abbiamo assistito ai clamorosi successi dei Cinquestelle in due tornate elettorali nazionali (2013-2018), nonostante i criteri francamente imbarazzanti di selezione del proprio personale e il profilo dei fondatori, che richiedeva una buona dose di credulonità per essere preso sul serio. Lo stesso meccanismo che ha portato al successo outsider amministrativi, più rentiers di congiunture favorevoli che in possesso di solide competenze; quali De Magistris, l’Appendino o la Raggi.
Insomma, un bluff che la quotidianità di questi anni non ha impiegato troppo tempo nel portare alla luce. Da qui l’ennesimo disamoramento di chi non se la beve più e considera l’appuntamento del voto un rito a cui non vale la pena di partecipare. Visto che in campo ci sono solo i mestieranti di un sistema bloccato che ripete stancamente gag diventate insopportabilmente stantie: i pretini alla Enrico Letta e Gualtieri a riproporci lo sciapo doroteismo incommestibile già al tempo della tarda Prima Repubblica; l’ansia di potere e successo di Matteo Renzi, all’inseguimento di modelli screditati quali la furberia affaristica di Berlusconi e l’opportunismo da arrampicatore sociale blairiano, a vent’anni data (o forse più); il camaleontismo – dal comunismo padano al sovranismo ungherese – di un Matteo Salvini che ha perso il punto di equilibrio per le troppe giravolte; Luigi Di Maio, affascinato dalla tradizione della scuola politica napoletana dei notabili alla Gava e alla Cirino Pomicino; l’incredibile riproposizione di un Giorgio Almirante in gonnella nella versione suprematista di Giorgia Meloni. Insomma, la fattoria degli animali della politica italiana, vigilata dall’algido banchiere Mario Draghi per conto della business community.
Come se ne esce? In astratto favorendo la ripresa di una reale dialettica politica conservazione-cambiamento, grazie all’entrata in campo di un soggetto effettivamente fuori dal coro; cui le masse aventiniane possano convincersi a dare una nuova chance.
Questo federatore dell’Altrapolitica pareva fosse Giuseppe Conte, che ancora non ha potuto lasciare il segno per la condizione di sfascio del M5S che dovrebbe rifondare e le mattane da protagonismo ansiogeno del confusionista Beppe Grillo.
In più non induce alla speranza la sensazione che il prudente Giuseppi potrebbe rivelarsi un altro non rimpianto remake: quello del suo conterraneo Aldo Moro. E faccio finta di dimenticarmi l’immaginetta di Padre Pio che conserva nel portafoglio.