Moda e Stile

Fashion Week a confronto: Parigi scintillante come prima del Covid, Milano incerta. Le sfilate viste da chi c’era, cioè (anche) noi

Miuccia Prada non ha sposato il 'modello parigino' e si è detta "fortemente in disaccordo con l’idea di un ritorno alla ‘normalità’ dobbiamo trarre una lezione da questo momento storico. Dopo tutto quello che è successo, come si può far finta di niente e tornare semplicemente alla normalità?”. Una riflessione condivisa anche da Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo di Valentino (non a caso un italiano), l'unico a mettere in discussione il "sistema parigino" dall'interno: “Sono successe delle cose delle quali occorre essere consapevoli. Non credo che ritornare al passato perché ci rassicura sia un gesto che serve per vivere oggi”

di Ilaria Mauri

Milano fa presentazioni, Parigi show. A Milano 300 persone sembrano tante, a Parigi ne trovi 6mila come se niente fosse. A Milano c’è cautela, distacco. A Parigi esuberanza. Milano ha accolto con riverenza e trepidazione il ritorno alle sfilate in presenza; Parigi lo ha dato per scontato. A Milano si parla delle collezioni, dei trend visti in passerella; a Parigi gli abiti sono quasi irrilevanti (vedere alla voce Balenciaga). Milano valuta il da farsi, a Parigi è già in atto la Restaurazione. Milano è ben radicata nella memoria del recente passato scandito dalla pandemia di Covid. Parigi si è già proiettata nel futuro, ha convogliato tutta la sua immaginazione per focalizzarsi solo su quello che sarà. Basta guardarsi intorno, la città è un cantiere unico. Sarà un cliché, ma alla fine di questo intenso fashion month che ha segnato il ritorno in presenza del mondo della moda, non si può fare a meno di tirare le somme di quanto abbiamo visto in queste settimane a Milano e Parigi. L’impressione è che la diversità d’approccio alla prima vera fashion week del post-pandemia abbia amplificato ulteriormente il divario tra i sistemi-moda di queste due città rispetto all’epoca pre-Covid.

Per comprendere meglio il senso profondo e l’impatto sociologico di quanto accade durante le fashion week occorre però fare un passo indietro e ricordare in breve come sono nati questi eventi, perché la chiave è lì. Innanzi tutto, forse non tutti sanno che a Parigi già agli inizi del XX secolo Paul Poiret aveva iniziato ad organizzare delle feste da ballo sontuose e stravaganti dove gli ospiti più illustri facevano sfoggio delle sue creazioni. Poi sono arrivate le due Guerre Mondiali e le presentazioni hanno acquisito una dimensione più intima, con Coco Chanel, Elsa Schiaparelli e Madeleine Vionnet che aprivano i loro salotti ad una cerchia ristretta di amici e clienti per mostrare loro i nuovi abiti. E Milano già nel ’58 si affermava sulla scena internazionale con la sua Settimana della Moda, Parigi ha dovuto attendere fino al 1973 per ufficializzare la sua prima Fashion Week: un evento unico che raccoglieva le creazioni di diversi stilisti tenuta alla reggia di Versailles con lo scopo di raccogliere fondi per finanziarne il restauro. Così, gli stilisti hanno definitivamente abbandonato le presentazioni negli ateliers per iniziare una gara alla sfilata più grandiosa, un’escalation di défilé memorabili che hanno fatto la storia della moda. Milano invece è rimasta sempre con i piedi per terra, focalizzata sul prêt à porter, ben salda nel suo punto di vista business oriented, perché alla fine le sfilate questo sono: un grande incontro di lavoro.

Ecco quindi che se la pandemia ha messo tutti sullo stesso piano, costringendo le case di moda a reinventarsi in chiave digitale, il ritorno alla “normalità” ha ricostituito questa polarità, azzerando (almeno sul lato francese) i buoni propositi emersi nei mesi scorsi. Prendiamo ad esempio Saint Laurent: nell’aprile del 2020 aveva diramato un comunicato stampa in cui annunciava che “ora più che mai, il marchio guiderà il proprio ritmo, rispettando il valore del tempo e connettendosi con le persone in tutto il mondo avvicinandosi ai loro spazi e alle loro vite. Saint Laurent prenderà il controllo del suo calendario e lancerà le sue collezioni seguendo un piano concepito secondo l’aggiornamento degli eventi e guidato dalla creatività”. Bene, il 29 settembre scorso la Maison è tornata a sfilare come sempre ai piedi della Torre Eiffel, nel pieno del calendario della moda parigina e con poco meno di un migliaio di invitati presenti. E Balmain? Vogliamo parlare delle 6mila persone radunate in una sala da concerti parigina per celebrare i 10 anni del direttore creativo Olivier Rousteing? Presenze e show da pre-Covid, che si sono visti un po’ ovunque, da Dior a Balenciaga, passando per il concerto di Rita Ora organizzato da Lancome sotto la Tour. E, ancora, taxi introvabili, Anna Wintour presenza fissa in prima fila (accanto a noi, a chi scrive: FQMagazine chiama moda, moda risponde), mostre celebrative, location grandiose sparse ai quattro angoli di Parigi, addetti ai lavori in fibrillazione (e sull’orlo di una crisi di nervi), topmodel di ieri e di oggi in passerella, influencer, calciatori e vip di ogni genere immortalati dai flash dei fotografi, social network intasati dall’hashtag #parisfashionweek come se tutto il mondo si fosse trasferito nella capitale francese. E pensare che a Milano già sembrava tanto il ritorno del traffico in città con la parata delle berline nere, delle modelle in metropolitana e degli aperi-party. Ora lo sparuto gruppo di ragazzini assiepati fuori dalle sfilate pur di vedere Chiara Ferragni fa una certa tenerezza. “Chi aspettate”, gli è stato chiesto da una collega all’ingresso di Max Mara. “Boh, chiunque”, la risposta innocente e disarmante.

Insomma archiviato definitivamente lo streaming, il carrozzone della moda ha ripreso le care vecchie abitudini. Ma se da una parte la “Ville Lumiere” è tornata più scintillante che mai, impegnata a fugare ogni dubbio sulla legittimità di eventi di tale portata con una pandemia ancora in corso (seppur tutti con Green Pass) distraendo l’attenzione con trovate comunicative senza dubbio affascinanti (e torniamo ancora una volta a Balenciaga); dall’altra Milano non ha nascosto la sua incertezza. Lo ha fatto Giorgio Armani, riaprendo le porte del primo teatro di via Borgonuovo per ricreare una dimensione intima e raccolta, con una cerchia ristretta di presenti. Ma lo ha fatto soprattutto Miuccia Prada, rompendo il silenzio e dicendosi “fortemente in disaccordo con l’idea di un ritorno alla ‘normalità’ dobbiamo trarre una lezione da questo momento storico. Dopo tutto quello che è successo, come si può far finta di niente e tornare semplicemente alla normalità?”. Una riflessione condivisa anche da Pierpaolo Piccioli, il direttore creativo di Valentino (non a caso un italiano), l’unico a mettere in discussione il “sistema parigino” dall’interno: “Sono successe delle cose delle quali occorre essere consapevoli. Non credo che ritornare al passato perché ci rassicura sia un gesto che serve per vivere oggi”, ha detto. Non resta che attendere febbraio, il prossimo fashion month, per capire come tutto ciò ci evolverà.

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