Be.Sa.Me. poco, non proprio mucho. Al di là di ogni aspettativa, gli elettori di questo importante turno amministrativo, 1.153 comuni e la Regione Calabria, hanno baciato decisamente poco le due destre (Lega e Fratelli d’Italia) e mezza (Forza Italia) del tridente Berlusconi, Salvini e Meloni. Be.Sa.Me., appunto. Acronimi a parte, le urne smascherano il paradosso di queste destre che mescolano populismo nero, leaderismo tutto chiacchiere e distintivo e i residui crepuscolari del berlusconismo: maggioranza nel Paese, almeno secondo il sentiment degli ultimi sondaggi a livello nazionale, ma disastroso nei grandi centri dove si è andato a votare: Milano, Roma, Napoli e Bologna. E pure a Torino dove comunque è arrivato al ballottaggio: qui infatti Lega e Fratelli d’Italia superano di poco il venti per cento.
Le cause principali: la scelta sbagliata dei candidati e la guerra sanguinosa tra i due capi sovranisti, Giorgia e Matteo. Detto questo però basta allargare lo sguardo per scorgere ragioni strutturali di fondo di questa crisi. Le esaminiamo partito per partito premettendo che l’astensionismo record di queste elezioni ha messo in evidenza un dato oggettivo: il fallimento del boom gialloverde alle Politiche del 2018, quasi il cinquanta per cento dei votanti, non porta ad alcun travaso di consensi ad altre forze. La gente, soprattutto in periferia, preferisce rimanere a casa, insofferente all’offerta politica nell’èra fulgida dei Migliori al governo.
Non solo. La fase avviata da Monti e proseguita dai governi consociativi di Letta, Renzi e Gentiloni aveva contribuito a ingrassare la protesta sociale incarnata da M5S e Lega. Stavolta, la tecnocrazia di Mario Draghi non sembra avere un’opposizione, se non quella degli astensionisti.
1) L’anomalia Salvini, ex re Mida del sovranismo. Le urne hanno bastonato l’arroganza del capo leghista. E l’affaire Morisi non è stato granché decisivo: da mesi, infatti, la Lega subisce un’erosione costante dei suoi voti, al punto da essere scavalcata, seppure di poco, da FdI nei sondaggi. Insomma, Matteo Salvini non trasforma più in oro quello che tocca. E il Carroccio è l’ennesima vittima della volatilità del consenso diventata la vera bestia (nera) dei leader negli ultimi sette anni (si pensi alla parabola renziana).
I dati sono lì a dimostrarlo: il dieci per cento scarso a Torino e Milano, il crollo a Bologna e Roma, il mancato sfondamento al Sud (8,33 in Calabria) che doveva nazionalizzare il salvinismo. Si può dire che Salvini è ormai prigioniero di se stesso, vittima delle sue contraddizioni di lotta e di governo, nonché alfiere di battaglie minoritarie come quella contro il green pass. Ovviamente, in quest’analisi, non si può non tenere conto della fronda governista e nordista di Giorgetti, Zaia e Fedriga.
Ma anche questo fronte non sembra attirare voti. Il problema è quello di avere una linea chiara. Oggi la Lega è la somma di due debolezze ed è arrivata a un bivio ineludibile: ingabbiare Salvini e trasformarlo nel capo di un partito moderato e pragmatico oppure continuare così e perdere ancora. Sempre che l’uomo del Papeete non faccia saltare il banco con qualche mossa a sorpresa a cavallo dell’elezione del nuovo capo dello Stato nel prossimo febbraio 2023.
Salvini, infine, non ha mai dimostrato di essere un leader unitario del centrodestra: ha sempre corso per sé e quando parla di “candidati scelti tardi” dovrebbe prendersela soprattutto con se stesso. Le sceneggiate infinite su Milano e Roma, poi sfociate nelle scelte di Michetti e Bernardo, sono andate avanti per mesi con un’inaudita inerzia masochista. Da un lato i sondaggi vincenti per la destra, dall’altro l’incapacità dei leader di trovare un accordo. Un paradosso, appunto.
2) L’incompiuta Meloni, aspirante premier. Se la Sparta salviniana piange, l’Atene meloniana non ride più di tanto. E’ vero che Fratelli d’Italia avanza, tiene testa alla Lega a Milano e Torino, ma non sfonda. E forse proprio per l’ambiziosa leader Giorgia Meloni vale la lezione dell’astensionismo di queste elezioni: dopo i boom grillini e leghisti, la protesta e il malcontento non la inondano di voti. Insomma, Meloni lucra poco sul dirigismo del premier Draghi, tenendo comunque presente che queste sono pur sempre Amministrative. Impossibile pronosticare quale sarà il destino di FdI da qui alle Politiche del 2023 (?) ma è probabile che Meloni rimpiangerà presto la scelta di non volersi candidare a sindaca di Roma pur avendo notevoli chance di vittoria.
Un motivo chiaro, in fondo: di fronte alla crescita del suo partito, la leader che ha riportato la destra a una linea sovranista e nostalgica ha iniziato a coltivare il sogno di andare a Palazzo Chigi alle prossime elezioni. Qui pesano le incognite che valgono anche per Salvini: se la destra continuerà a suicidarsi in un derby fratricida non dovrà fare solo i conti con le urne, ma anche le spinte normalizzatrici del Sistema che vogliono Draghi per sempre, al governo oppure al Colle.
3) Il crepuscolo del mini-Berlusconi. Anche queste elezioni confermano la natura mini degli azzurri, pari a quella di un Pri o di un Pli della Prima Repubblica. Forza Italia oscilla fra il 3 e il 7 per cento, lontano dalle due cifre. In ogni caso un gruzzolo di voti decisivo per far vincere il centrodestra, soprattutto se si dovesse votare con il Rosatellum semi-maggioritario. Oggi Silvio Berlusconi ha 85 anni e vaneggia una fine gloriosa per la sua parabola politica: fare il capo dello Stato. Prospettiva irreale ma che Meloni e Salvini per mesi hanno furbamente usato per tenerselo buono.
In ogni caso, berlusconismo o meno, il crepuscolo dell’ex Cavaliere apre una voragine a destra, quella che riguarda gli elettori moderati e liberali senza un vero riferimento. A Roma, il successo di Calenda è dovuto anche a questo. Basterà, allora, fare un’alchimia tra berlusconiani, renziani e calendiani per dare vita a un centro che guardi a destra? La scommessa può essere questa, nel frattempo il pane delle due destre e mezza ha questa farina: Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Sarà sufficiente, dopo questa catastrofe elettorale, per puntare al governo dopo un decennio di astinenza?