La Cassazione ha emesso l’ultimo verdetto sul caso di Martina Rossi, la ventenne genovese precipitata dal sesto piano di un hotel a Palma di Maiorca mentre si trova in vacanza con due amiche. I giudici hanno reso definitivi i tre anni di carcere ad Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, condannati per tentata violenza sessuale di gruppo. Confermata dunque la sentenza emessa il 28 aprile del 2021 dalla Corte d’Appello di Firenze al termine di un complicato percorso giudiziario, che aveva portato alla prescrizione dei reati di morte in conseguenza di altro reato e omissione di soccorso. Accolta la richiesta del sostituto procuratore generale Elisabetta Ceniccola, mentre sono stati dichiarati inammissibili dalla Cassazione i ricorsi degli imputati. Il 3 agosto del 2011 Martina era morta nel tentativo di scavalcare il terrazzino della camera verso quello a fianco: sbrigativamente, e ignorando la testimonianza di una cameriera che l’aveva vista cadere, le autorità spagnole avevano archiviato il caso con l’ipotesi di suicidio. Una versione a cui i genitori e tutti quelli che la conoscevano non credono neanche per un momento. “Non ci deve essere più nessuno che possa permettere di far del male a una donna e passarla liscia. Ora posso dire a Martina che il suo papà è triste perché lei non c’è più, ma anche soddisfatto perché il nostro paese è riuscito a fare giustizia”, ha detto Bruno Rossi, dopo la sentenza. “Non esiste un’altra verità se non quella per cui Martina Rossi è morta per sfuggire a un tentativo di stupro ed era talmente disperata al punto da scavalcare un balcone al sesto piano. Ora la Spagna chieda scusa per come ha archiviato l’indagine e per il fatto che quella stanza d’albergo venne affittata solo qualche ora dopo” ha detto invece Luca Fanfani, avvocato della famiglia Rossi.

La stanza dalla quale fugge la giovane – studentessa al primo anno di Architettura a Milano – è quella di Albertoni e Vanneschi, due giovani di Castiglion Fibocchi (Arezzo), i quali, nel 2018, vengono condannati in primo grado dal Tribunale di Arezzo a sei anni per tentata violenza sessuale di gruppo e morte come conseguenza di altro reato. Tre anni per ognuno dei due delitti, mentre la scure della prescrizione era già caduta sull’omissione di soccorso. Al ritorno dalla notte in discoteca – nella ricostruzione fatta dal processo – la ragazza è salita in camera dei due giovani perché, nella sua, le amiche si trovavano con gli altri due aretini della compagnia. Venti minuti dopo, i due cittadini danesi alloggiati nella camera accanto racconteranno di aver sentito un urlo straziante. “Martina non muore sul colpo”, ha raccontato suo papà Bruno a ilfattoquotidiano.it confrontandosi con la durezza delle carte processuali. “Sono le 6.45 del mattino quando precipita in una vasca e, per quaranta minuti, nessuno scende a prestarle soccorso“. Il suo corpo verrà trovato a terra senza ciabatte né pantaloncini, con evidenti segni sul corpo che gli stessi imputati – nella loro strategia difensiva – sosterranno di aver causato nel tentativo di evitare che si buttasse giù di proposito.

A seguito della sentenza di primo grado, gli avvocati dei due giovani avevano presentato appello. Nel 2018 l’accusa di morte come conseguenza di altro reato finisce in prescrizione, come avvenuto in precedenza per l’omissione di soccorso, lasciando in piedi solo l’ultima accusa. Per questo motivo, anche a seguito di varie polemiche, la presidente della Sezione di Corte d’Appello decide di anticipare le udienze e la sentenza di secondo grado arriva il 9 giugno 2020. Per i giudici Martina non stava fuggendo da uno stupro: il tentativo di abuso, motivavano i magistrati, “non può neppure del tutto escludersi”, ma “le modalità della caduta” non sarebbero state coerenti con l’ipotesi della fuga. La procura generale di Firenze impugna le motivazioni e lo scorso 21 gennaio la Cassazione annulla l’assoluzione degli imputati e ordina un nuovo processo d’Appello: “La sentenza impugnata non è capace di resistere – si legge nelle motivazioni – considerata sia l’incompletezza, sia la manifesta illogicità, sia la contraddittorietà della motivazione redatta dal Collegio in appello”. L’accusa aveva chiesto tre anni di reclusione e la stessa richiesta era stata avanzata dai legali dei genitori di Martina, parti civili. Il verdetto era stato impugnato e quindi oggi la Cassazione ha detto l’ultima parola.

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