Bebe non stava bene: “Mamma e papà andavano ogni due secondi dai miei allenatori a chiedere come stessi e loro dovevano fingere perché io non avrei mai interrotto la gara e se loro avessero saputo tutto mi avrebbero bloccata subito”
“Se qualche settimana fa mi avessero detto ‘A Tokyo vincerai due medaglie’ mi sarei messa a ridere”, aveva scritto sui social Bebe Vio, nei mesi precedenti alle vittorie una brutta infezione aveva messo a rischio la partecipazione ai Giochi Paraolimpici ma soprattutto la sua vita con il rischio di una nuova amputazione (del braccio sinistro): “Questa volta pareva davvero impossibile. Mancavano pochi giorni, avevo perso dieci chili, il braccio con cui tiro era magro magro, svenivo e vomitavo. Così sono arrivata ai Giochi di Tokyo. Svenivo e vomitavo”, racconta al Corriere della Sera.
“È successo anche in gara. Una gara di scherma è composta da alcuni match la mattina, altri al pomeriggio. Faticosissimi. Il mio corpo proprio non era in grado di reggerli, fisicamente. Durante un match l’adrenalina è talmente alta che non senti dolori ma appena finivo il match mi prendevano per la collottola del giubbetto elettrico e mi portavano via perché svenivo. Non potevamo far vedere che stavo male in gara. È uno sport di combattimento, non puoi dire al tuo avversario che stai male. Vomitavo e svenivo”, ha spiegata la campionessa nello sport e nella vita.
Vio ha conquistato un oro nel fioretto individuale e un argento Fioretto a squadre, nonostante le difficoltà. Racconta che il medico della nazionale più volte si era espresso durante la gara (“Basta, per me è finita qua”), proprio per il suo gomito gonfio, Bebe non stava bene: “Mamma e papà andavano ogni due secondi dai miei allenatori a chiedere come stessi e loro dovevano fingere perché io non avrei mai interrotto la gara e se loro avessero saputo tutto mi avrebbero bloccata subito”.
“Sono testarda, più che dura. Per questo resisto a tutto”, ha aggiunto nel corso dell’intervista rilasciata al Corriere della Sera raccontando l’ultima sua gita con i successivi effetti: “Sono appena tornata da un giro bellissimo con un gruppo di amici alle Eolie. Ero lì, abbiamo visto Vulcano, ho detto: cavoli, saliamo su! E il giorno dopo siamo saliti anche a Stromboli. Ci siamo fatti dodici chilometri per andare su! Vuoi vedere i miei piedi? Distrutti. Te li mostro in una foto sul telefonino. Piedi tecnologici. Materiali speciali. Rovinati. Un disastro. Lo vedi il carbonio che ha bucato la plastica dura e esce fuori? Ho preferito non mettere le scarpe e farmi la salita scalza. Ero consapevole che mi sarei ferita, sapevo che facendo quello sforzo sarei arrivata su con i monconi completamente rotti però salire era talmente bello!”.