Che ne sarà del cinema nel futuro? Il quesito, per appassionati e non, è d’obbligo da un po’. Streaming, distanziamenti, mascherine, Greenpass, rivoluzioni digitali. Un cocktail micidiale di agenti esterni per far saltare il buon vecchio baraccone dove al buio si proiettano le storie di fantasia e di realtà dell’universo mondo. Simone Arcagni con Cinema Futuro (Produzioni Nero), titolo volutamente e creativamente ambiguo, che a noi ricorda quando Jean-Marie Straub (senza Daniele Huillet) si incazzava perché nel manifesto del suo film Operai, contadini non avevano messo la virgola tra i due sostantivi, prova a farci capire che poi questo momento di transizione, di passaggio, di trasformazione non è poi così brutto come lo si dipinge.
Chiaro, l’avrete capito, viviamo nel mito dell’iperuranio con l’odore un po’ acre nelle narici delle poltroncine di un vecchio d’essai del centro, quindi l’ipotesi di veder sparire del tutto quel sistema lì ci fa stramazzare al suolo, vedovi inconsolabili. Arcagni con questo suo desiderio di accelerazione, con questa entusiasmante fiducia in quello che comunque accadrà (qualsiasi cosa esso o essa sia) prova a porsi come quel tizio che in Birthday girl è pronto a sorreggerti per le braccia se a occhi chiusi ti lasci andare all’indietro. Cinema Futuro è composto in due parti: una più teorica, in divenire, meno definitiva e definibile; l’altra legata alle sperimentazioni formali e di senso del fare cinema in maniera non tradizionale, parte più bizzarra, curiosa e sorprendente. L’imperativo rimane comunque questo: “Mettere in crisi la purezza del cinema si può” (poi ci torniamo). Anche perché la “crisi” dei “modelli, del pubblico, industriale” per il cinema, come lo si è conosciuto nel Novecento, è piuttosto conclamata.
Arcagni allora cerca di spiegare che non ha molto senso dannarsi l’anima per salvare la forma base “macchina da presa, ripresa, proiettore, black box”: l’importante è mantenere viva la narrazione, “campo precipuo”, accanto a diverse forme del discorso. Il cinema “è nel futuro” (…) “continuamente alla ricerca della propria identità”. Noi la facciamo breve. L’autore invece la tira un po’ lunga, deleuzianamente, guattarianamente, circumnavigando il gesto sacrilego. In pratica si dovrebbe passare “dal cinema al cinematico”, dal “sostantivo (rigido) all’aggettivo (elastico)”. Insomma non si può rimanere male o delusi di fronte a chi rimescola le carte del supporto (cinema, tv, telefono, personal computer), o a chi fa sfumare ascissa e ordinata della fruizione (un cinema dove ci si può muovere, interagire, giocare), perché siamo arrivati al punto in cui tutto è in discussione, dimensione porosa del discorso teorico trasformato in materia informe tutta da costruire. Ed in questo l’autore sa rendere l’idea dell’intuizione che accompagna, senza virgola, questo “cinema” aggettivato teso verso un domani (“futuro”) ancora ignoto. Ignoto ma che si può immaginare.
E qui viene il bello di Cinema Futuro. Se la matrice dell’immaginazione di un futuro possibile del cinema è stato preso in carico principalmente dalla letteratura fantascientifica, se il presente è già algoritmo “che anticipa i nostri gusti” (nostri in senso ampio, ma non nostri in senso stretto perché a noi l’algoritmo dà sempre suggerimenti errati ndr), ecco che c’è qualcuno che addirittura immagina di estrapolare i sogni per poi “proiettarli” su qualche schermo o parete (Kamitani). Una roba che farebbe impallidire Freud, ma tant’è. Il ritorno “al precinema del pre Lumiere” per Arcagni oltre ad una ovvia logica consequenziale è un vero e proprio senso di un discorso da farsi in ogni istante che passa dove addirittura “attori, sceneggiatori, registi” con “l’intelligenza artificiale si troverebbero in ruoli professionali a rischio”. Ma come? Niente più star o autori o showrunner? A leggere la seconda parte del libro di Arcagni pare di sì. Basta prendere uno dei tanti esempi pratici di trasformazione del cinema nel presente/futuro. Si chiama Benjamin ed è un’intelligenza artificiale messa a punto da Thomas Middleditch. Benjamin è sceneggiatore e regista già di due film: Sunspring e Zone out. “Il programmatore (ancora una volta, una figura che si sostituisce sempre più al regista e al produttore) – spiega l’autore – ha riunito migliaia di ore di vecchi film alle quali ha aggiunto diversi filmati di attori professionisti ripresi su schermo verde. Si tratta di una sorta di training imposto dal programmatore”.
Questa è un’ipotesi, tra l’altro molto pratica perché una prova di ciò che può combinare Benjamin è su Youtube come tutti gli esempi citati da Arcagni che li correda pagina dopo pagina di un QRCode ovviamente interattivo. Pensiamo alle web serie nate nei primi duemila online o ad Out of my Window, il film interattivo di Katerina Cizek “che lavora proprio sull’idea di finestra che, da spazio inquadrato, si trasforma in soglia digitale”. Film presente in rete ma anche con una versione interattiva e con spazi “sferici” da esplorare a 360 gradi e non più frontalmente come in sala. Infine, ma proviamo a stringere noi tra i tanti esempi stuzzicanti, ci sono il casco e la tuta Synesthesia Suit, “composta da 26 sensori che vibrano in tutto il corpo insieme alla musica, mentre pulsa di luci led. Si tratta di un dispositivo multisensoriale in grado di offrire un’esperienza di embodiment al giocatore: non serve solo vedere o muoversi con gli occhi nel mondo virtuale, ma starci anche dentro, sentire le vibrazioni, le pulsazioni, sincronizzarsi con le trame musicali”. Arcagni si sbizzarrisce ed è un vero piacere provare come al luna park le varie e variabili attrazioni sul cinema futuro utilizzando qrcode e smartphone. Poi però la questione rimane aperta. Che ne sarà di noi e del nostro cinema come lo conosciamo decadente e fuori fuoco nel 2021? Incrociamo le dita e quantomeno, intanto, godiamoci gli ultimi scampoli di tradizione in sala.