di Claudia De Martino
Nel 1815, alla vigilia del Congresso di Vienna, un abate che aveva militato nei ranghi dell’Assemblea costituente e della Convenzione dell’ormai tramontata Rivoluzione francese, indirizzò agli allora potenti della terra un appassionato pamphlet intitolato Sulla tratta e la schiavitù dei neri e dei bianchi da parte di un amico di uomini di tutti i colori (per la prima volta edito in italiano dalla Castelvecchi a cura di Tommaso Visone, 2021).
Membro della lega internazionale degli abolizionisti – che più che una vera lega era un insieme composito di cristiani e intellettuali che si battevano contro il mantenimento dell’istituto della schiavitù nelle Americhe e della tratta dei neri dall’Africa orientale – l’abate Henri Grégoire associava nella sua denuncia due grandi battaglie civili, unite l’una all’altra, che pure l’opinione pubblica del tempo voleva tenere strettamente separate: la tratta degli schiavi neri e l’oppressione dei bianchi – in questo caso irlandesi – nel cuore della civile Europa.
Il primo crimine era imputabile principalmente alla Francia napoleonica, che aveva ripristinato la tratta, già praticata dalla monarchia assoluta fin dal 1685 (Code noir), anche dopo che la Rivoluzione era riuscita ad abolirla, mentre il secondo era imputabile all’Inghilterra, che pur battendosi contro la Francia a favore della libertà dei neri, teneva in stato di semi-cattività i sudditi cattolici in Irlanda.
All’inizio del diciannovesimo secolo, la profonda intuizione dell’abate fu di collegare due lotte che non sembravano avere connessioni e che sembravano dirette a nemici diversi e mutualmente ostili, ma che invece presentavano un tratto condiviso: la scelta di negare il principio etico universale dell’uguaglianza tra tutti gli uomini in virtù della “ragione di stato”, in nome della quale – come scrisse l’abate di suo pugno – “si ordiscono gli attentati più temibili contro i popoli”.
Nella sua campagna etica a favore dell’abolizione della schiavitù, che riguardava indifferentemente i bianchi e i neri, l’abate delineava due argomenti centrali: il primo era che la schiavitù fosse una pratica contro natura, in nome di una convinzione religiosa cristiana che voleva che gli uomini fossero stati tutti creati uguali in Dio, il secondo era che era troppo facile attribuire tutti i vizi e le debolezze ai popoli sottomessi e sfruttati, perché era ovvio che gli uomini tenuti in cattività non potessero praticare le stesse virtù degli uomini liberi. Dal momento che “ci sono virtù che fioriscono solo all’ombra della libertà e dell’agiatezza e ci sono vizi insiti nella schiavitù e nella miseria degli uomini espropriati ed asserviti…”, concludeva che ovunque ed in ogni epoca “l’uomo è il prodotto della sua educazione e delle sue circostanze” (Henri Grégoire: 63).
L’abate argomentava anche che il ruolo dello Stato e delle istituzioni fosse centrale nella definizione dei comportamenti degli uomini, infatti “se la patria, madre di alcuni, è matrigna di altri, se le costituzioni protettrici e allo stesso tempo oppressive distribuiscono i vantaggi con una parzialità che fomenta da un lato l’orgoglio, dall’altro invidia e odio, questo stato di cose accusa il governo: (…) che i governi spesso puniscono crimini che essi stessi hanno fatto nascere” (Henri Grégoire: 63).
La modernità espressa dal pensiero dell’abate è tutta qui: nell’aver riconosciuto – oltre duecento anni fa – che sono gli Stati a creare le categorie sociali a cui poi gli uomini si conformano e che dividendo gruppi diversi tra loro in base al colore della pelle, alla razza, la religione, gli orientamenti sessuali o in base ad altre distinzioni, come il possesso di visti e passaporti – si creano due classi separate di uomini: la prima composta di cittadini rispettosi delle regole che li tutelano e la seconda di uomini marginalizzati dal sistema, orientati ad aggirare quelle stesse regole che li ghettizzano o respingono alle frontiere.
Tommaso Visone, che ha curato la prima traduzione dell’opera dell’abate in italiano, ha sottolineato come anche nell’Europa odierna, in modo speculare, si ponga una forte contraddizione tra i principi enucleati nella Carta europea dei diritti di Nizza e la loro traduzione pratica alle frontiere dell’Unione: alle frontiere la Commissione europea e gli Stati membri sono impegnati in una corsa per la militarizzazione attraverso l’incremento (+12%) dei fondi destinati ad operazioni di controllo, pattugliamento e monitoraggio allocati all’agenzia Frontex, ma anche attraverso la costruzione di campi di detenzione in Paesi extra-Ue in modo da tenere la vista della contemporanea tratta degli esseri umani il più lontano possibile dagli occhi dei cittadini europei. Campi non a caso localizzati in Paesi confinanti la Ue, come la Bielorussia, la Bosnia-Herzegovina, il Libano, la Libia, la Mauritania, la Moldova, il Marocco, la Macedonia del Nord, la Tunisia, la Turchia e l’Ucraina (“Outsourcing Oppression”, TNI, 2021).
Dal 2020 è anche in azione l’operazione di pattugliamento delle coste “Irini”, che ha sostituito le precedenti Sophia e Mare Nostrum, per coordinare gli sforzi delle autorità europee con quelli della Guardia costiera libica, al fine di rimpatriare il massimo numero di potenziali rifugiati in Libia.
Come gli impresari coloniali impegnati nella tratta nel 1800 dicevano che non si potesse rinunciare alla riduzione in schiavitù dei neri se non pregiudicando le economie coloniali europee, così oggi gli Stati e le autorità europee ripetono il mantra che solo investendo più risorse nella militarizzazione delle frontiere l’Europa potrà restare quel continente prospero che è ancora oggi. Esattamente come nel 1800, di fronte al “Nuovo Patto su Migrazione e Asilo” della Commissione europea (2020) si ergono poche voci critiche che ne rifiutino l’impianto complessivo e ancora meno che sappiano legare la questione migratoria alla gestione criminale dei migranti ridotti in clandestinità da parte delle varie mafie, composte da italiani o connazionali, tese al loro sfruttamento in lager agricoli o in altre attività illegali sul nostro territorio, di fatto alimentando i proventi della criminalità organizzata.
È per questo che testimonianze come quella di Mimmo Lucano risultano oggi altrettanto scomode dei pamphlet politici dell’Abbé Grégoire a inizio ‘800: entrambi ci ricordano che non solo di fronte ai nostri occhi continua a consumarsi un crimine contro l’umanità, ma che il nostro tacito assenso sta corrodendo le nostre società, assicurando impunità e vantaggi a chi continua a lucrare sulla tratta contemporanea.