Una “riunificazione” pacifica, nell’interesse della Cina e di Taiwan. È questo l’obiettivo del presidente Xi Jinping. Durante la commemorazione del 110º anniversario della rivoluzione contro la dinastia imperiale – nella Grande sala del popolo – il presidente è tornato a parlare dell’isola, formalmente cinese ma di fatto indipendente. La dichiarazione non è passata inosservata e Taipei ha invitato Pechino a interrompere le provocazioni: “Il futuro della nostra nazione è nelle mani solo dei suoi 23 mila abitanti“. Intanto gli aerei militari cinesi continuano a sorvolare lo stretto a sud del continente e i territori taiwanesi. Le incursioni sono state 149 volte in quattro giorni.

Questa volta i toni di Xi Jinping sono stati più concilianti rispetto alle sue prese di posizione precedenti su Taiwan: in un discorso del 2019 aveva promesso l’uso della violenza per reprimere la volontà separatista – in modo non troppo diverso da quanto fatto a Hong Kong – e lo scorso luglio aveva ribadito la “distruzione di qualsiasi resistenza“. Oggi non ha fatto riferimento esplicito al dispiegamento della sua forza militare, anche se la presenza costante dei caccia bombardieri nei cieli dell’isola è un segnale abbastanza evidente. Per chiunque sostenga il “secessionismo”, – agendo dalla “parte sbagliata della storia” -, ha annunciato però disprezzo e pene severe: “Pechino proteggerà la propria sovranità e unità“.

“La Cina sta mostrando i muscoli – aveva dichiarato il primo ministro taiwanese, Su Tseng-chang, poco prima del discorso di Xi – “I paesi che credono nella libertà, nella democrazia e nei diritti umani, e basati su valori condivisi, stanno tutti lavorando insieme e hanno ripetutamente avvertito che la Cina non dovrebbe invaderci”. “Faremo tutto il necessario per difendere la nostra libertà e il nostro stile di vita democratico, nonostante non abbia creato il conflitto” aveva ribadito ieri la presidente Tsai Ing-wen in un forum sulla sicurezza a Taipei. L’isola però si “sforzerà di mantenere lo status quo di pace e stabilità attraverso lo Stretto”.

Le intenzioni di Pechino sono evidenti ormai da anni e il timore – come ha affermato il ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng – è quello di un’invasione “su larga scala” dell’isola entro il 2025: “L’altra sponda dello Stretto ha ripetutamente tentato di sminuire Taiwan – ha dichiarato in una nota il Consiglio per le relazioni con la Cina – , come “un Paese, due sistemi“. La dicitura è presente ne il “Consenso del 1992“, un provvedimento che manifesta esplicitamente le premesse – “chiaramente respinte dai taiwanesi” – per lavorare per una “Grande Cina Unica“.

Dal 1949 Taiwan – o Formosa – è infatti sperata dalla “Repubblica popolare cinese” e rivendica la propria sovranità con il nome di “Repubblica di Cina“. Lì infatti si rifugiò il governo nazionalista cinese, spodestato durante la guerra civile dalla fazione comunista di Mao Zedong. Pechino l’ha sempre considerata una “provincia ribelle” e ha ostacolato i suoi tentativi di affermarsi a livello internazionale, espellendola dall’Onu e dalle altre organizzazioni. Ad oggi infatti Taiwan è riconosciuta come Stato solo da 15 Paesi nel mondo, ma è una delle democrazie più salde dell’Asia e ha importanti rapporti con l‘Occidente e con gli Stati Uniti.

Proprio per questo Xi, anche nel suo ultimo discorso, ha sottolineato che quella taiwanese è “una questione interna e la Cina non ammette interferenze esterne“. L’allusione sembra chiara alle operazioni di addestramento – rivelate da alcune fonti anonime al Wall Street Journal e all’agenzia Reuters – che le forze speciali di Washington stanno svolgendo nel paese ormai da un anno. Le relazioni militari tra i due Paesi – anche se mai ufficializzate – sono state rafforzate, rispetto alla normale routine, dall’amministrazione Trump. Addirittura alcune testate asiatiche affermano che Biden – che condivide con il suo predecessore qualche preoccupazione per l’espansionismo cinese nell’Indo-pacifico – avrebbe suggerito il dispiegamento di navi della marina americana nell’area. Le voci non sono state però mai confermate dai funzionari Usa, così come la presenza di ufficiali militari nel Pese.

In caso di invasione Taipei sarebbe però impreparata, senza un aiuto esterno: negli ultimi 15 anni – secondo le parole al Guardian di Matt Pottinger, vice consigliere per la sicurezza nazionale durante l’amministrazione Trump ed esperto di Cina – l’isola ha trascurato la propria difesa nazionale. Ha infatti acquistati attrezzature troppo costose, ma non efficaci “che verranno distrutte nelle prime ore di un conflitto”. La spesa totale per la difesa militare da parte del governo è stata simile a quella di Singapore, isola con un quarto della popolazione di Taiwan e che “non ha la Cina con il fiato sul collo”.

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