Una scrittrice dona un rene e descrive tutto il suo percorso sui social, una collega riprende la storia e la pubblica. Scattano querele e contro querele, mentre tutto il mondo dei giornali liberal statunitensi parla solo di questo. Who is the bad art enemy? è il titolo dell’articolo firmato da Robert Kolker che il New York Times ha pubblicato ricostruendo la lunga e articolata vicenda. Tutto inizia nel 2015 quando la scrittrice Dawn Dorland decide di donare un rene aderendo ad un programma che permetteva di donare un rene a sconosciuti. Insomma, un gesto di generosità sociale con cui, comunque, perché anche di questo narra questa vicenda, la Dorland ha cercato visibilità in una cerchia di conoscenti e amici taggati in un post privato su Facebook. Insomma, una via di mezzo tra lo dico a tutti affinché lo sappia il mondo e lo dico comunque in giro a parecchi affinché si sappia. In questo gruppo privato venne taggata anche un’altra scrittrice, Sonya Larson, che con la Dorland aveva frequentato anni addietro una scuola di scrittura a Boston, GrubStreet. In questo post apparì anche una sorta di lettera indirizzata alla persona sconosciuta a cui sarebbe arrivato prima o poi il rene. “La mia infanzia è stata segnata da traumi e abusi. Non ho avuto l’opportunità di creare saldi legami con la mia famiglia di origine. Tuttavia un effetto positivo dei miei primi anni è l’empatia, che ha aperto un mondo di possibili relazioni tra me e gli sconosciuti. Mentre molte altre persone sarebbero forse motivate a donare un organo a un amico o a un familiare bisognoso, per me la sofferenza di chi non conosco è altrettanto reale”.
Come sappiamo dai tanti salamelecchi più o meno sentiti sui social, in molti dei taggati privatamente lodano l’iniziativa e si complimentano. Tra i pochi che non lo fanno – riportiamo quello che scrive il NYT anche se francamente non è obbligatorio congratularsi con qualcuno che si conosce poco o nulla – c’è la Larson. Un anno dopo sbuca il racconto The Kindest, scritto dalla Larson e la protagonista è una donna che dona un rene. Un amico comune alle due donne suggerisce l’accaduto alla Dorland e questa chiede di poterlo leggere con una mail privata alla Larson. La collega scrittrice non risponde per dieci giorni poi spiega che sta lavorando a una storia del genere “molto ispirata al tuo gesto”. Apriti cielo. La Dorland diventa una belva e, segnaliamo sempre dal NYT, rimprovera la presunta amica anche per non averle nemmeno fatto gli auguri di pronta guarigione post espianto e di averla “usata”. Che Larson ribatta sostenendo che manco erano amiche sembra quasi superfluo: “Non avevo pensato che il mio supporto fosse dovuto”.
A quel punto però The Kindest ha già vinto un concorso letterario a Boston e viene pubblicato in 30mila copie. Larson allora decide di rispondere alle assillanti mail della collega: “Vedo che sei molto ferita, e per questo mi dispiace molto. Io stessa ho visto riferimenti alla mia vita nelle opere di altri, e di sicuro mi ha fatto effetto. Ma io penso che si abbia il diritto di scrivere di quel che vogliamo, come ce l’ho io e come ce l’hai tu”. A questo punto la questione passa agli avvocati e alle diffide. Dorland chiede 15mila dollari di danni e 180mila se la collega riscriverà ancora qualcosa sulla sua storia. Ma prima che Larson risponda ecco la chat (segnaliamo: privatissima su Whatsapp) in cui Larson e diversi amici, tra cui alcuni taggati nel famoso post della Dorland da cui tutti ebbe inizio, si permettono di sfotticchiare il narcisismo e la megalomania della Dorland. A quel punto, siamo nel 2019, è la Larson ad andare in tribunale sostenendo di essere diffamata e di aver affossato la sua carriera. Sull’articolo nel NYT però, proprio nel finale, ecco che arriva l’ultimo colpo di scena: durante i mesi della pandemia Covid, in tre diversi eventi letterari in streaming in cui Larson è tra i conferenzieri, Dorland appare come pubblico. “Mi sono sentita come perseguitata”, ha spiegato Larson. E la Dorland risponde che non c’era nulla di strano, semplice aggiornamento della diatriba e soprattutto che vedere la collega è “terapeutico” perché la rende una presenza reale e non un’ossessione che le riempie la testa. Morale della favola, proprio come nel titolo del NYT, chi è la peggior amica scrittrice tra le due? C’è chi dice, nel mondo letterario statunitense l’una oppure l’altra; ma c’è anche chi come Vanity Fair punta il dito su Facebook: il “cattivo” della storia della bad art friend è lo strumento dei social o più in generale il ruolo che i social hanno assunto nelle nostre vite.