Che cosa c’è di più bello della gloria terrena a chi se l’è meritata? Con questo stato d’animo attendiamo ogni anno l’assegnazione del Premio della Banca Svedese per l’Economia (un’aggiunta ai veri premi Nobel) come si dovrebbe per ogni riconoscimento umano: con attesa, ma soprattutto con la speranza che vincano i migliori, che i premi vadano veramente ai più bravi, ai più originali, ai più utili allo sviluppo economico, e non è difficile distinguerli.
Quest’anno – come capita quasi sempre – l’alloro è finito diviso tra le mani di tre economisti che esercitano nelle università nordamericane, MIT, Stanford e Berkeley; precisamente un israelo-statunitense (Joshua Angrist), uno originario dei Paesi Bassi (Guido Imbens), e infine un canadese (David Card). Il tema oggetto comune dei lavori dei tre economisti oltre che dell’entusiastico apprezzamento degli Svedesi è quello delle ricerche empiriche, un campo di gran moda negli ultimi anni tra gli economisti, che consiste brevemente, nel simulare e nello studiare le condizioni reali in appositi laboratori. Dei tre, due sono la mente, Anmgrist e Imbens, nel senso che si sono occupati della metodologia che è alla base di questi esperimenti, Card invece è un applicato, nel senso che si è concentrato su alcuni temi specifici, quali ad esempio il mercato del lavoro.
La metodologia al solito è la parte più importante. Se il modello è impostato correttamente, i risultati lo saranno di conseguenza. Inutile ricordare che la metodologia come è invalso negli ultimi decenni tra gli economisti è di tipo matematico, non per questo necessariamente né scientifica né esatta. Poi ci vorrebbe una certa visione del mondo, ma quella è più difficile da ottenere.
Certamente l’assegnazione del cosiddetto Nobel dell’economia anche quest’anno non ha esplorato nuove strade. I destinatari del premio sono certamente ottimi studiosi, dubito siano anche “grandi economisti”, almeno nel senso schumpeteriano del termine. È cambiato qualcosa nel mondo reale grazie ai loro studi? Purtroppo, da tempo la scienza economica ha smesso di porsi questa domanda e le cose vanno di conseguenza. L’economia da decenni ristagna all’interno di logiche utilitaristiche che non mirano a cambiare in meglio il mondo, come se non fosse compito di chiunque, anche degli economisti. Il mondo è questo, non spetta a noi cambiarlo: questo è il principio cardine della moderna economia quantitativa (e di conseguenza non qualitativa).
Salvo rarissime eccezioni, gli adepti della scienza economica hanno cessato di sviluppare le loro attitudini critiche e hanno scelto in prevalenza di affiancarsi al potere, alla realtà esistente, più che altro – diciamo la verità – per ottenere ottimi incarichi, retribuitissime consulenze. I casi alla Raghuram Rajan che nel 2005, inascoltato, mise in luce i rischi sui contratti derivati non sono molti. Più frequenti invece i casi alla Martin Feldstein (Harvard) o alla Glenn Hubbard (Columbia), ottimi nello scrivere articoli di grande successo scientifico e commerciale, meno nel riconoscere i propri errori, avvallando a clamorosi sbagli nelle scelte economiche.
In pratica è dalla morte di John Maynard Keynes (1946) che la scienza economica stenta a trovare una sua autonoma strada, lontana dal potere politico, indipendente nel campo della ricerca e della metodologia scientifica. Non è bastato portarla su versanti quantitativi e formali, incomprensibili ai più, su pagine astratte e spesso lontane dalla realtà economica, che in fondo dovrebbe restare il valore di confronto e la misura incontrovertibile dell’attendibilità. Una scienza economica che non è riuscita a far molto per evitare gli ultimi gravi fallimenti (se ne era accorta persino la Regina Elisabetta). Eppure, almeno dopo il Covid sembrava che tutti fossimo d’accordo che la vita e quindi la scienza economica non avrebbero potuto essere più le stesse, che con un vestito più green avremmo cambiato strada, e che invece evidentemente è ancora ferma.
Purtroppo, le logiche corporativiste che presiedono all’assegnazione di questi premi ormai hanno dimostrato ad abundatiam di essere inadeguate a premiare la vera innovazione, i contributi realmente scientifici al progresso umano, che sarebbe il compito primo della scienza economica. Peccato.