La settimana scorsa la Siria è stata riammessa nell’Interpol, l’organizzazione di cooperazione tra le polizie statali nelle attività di contrasto ai crimini internazionali: è l’ennesima conferma che, a giudizio della comunità internazionale, nello stato mediorientale il conflitto è terminato, la ricostruzione è avviata e insomma tutto va bene.
Questo significa che il governo di Damasco potrà comunicare con le polizie di 193 paesi attraverso i canali ufficiali dell’Interpol e avere accesso al database dell’organizzazione. Soprattutto, le autorità siriane potranno pubblicare i cosiddetti “avvisi rossi”, mandati di cattura attraverso i quali si richiede alle polizie statali di rintracciare e arrestare le persone ricercate, in vista della possibile estradizione.
È vero che gli “avvisi rossi” devono essere sottoposti al segretariato generale dell’Interpol ed essere analizzati al fine di scongiurare mandati d’arresto per motivi politici, ma si tratta di un processo di screening debole e, in ogni caso, ben pochi “avvisi rossi” vengono respinti. Per di più, gli stati membri dell’Interpol possono emettere mandati di cattura destinati a specifiche regioni del mondo o addirittura direttamente a singoli stati, aggirando ogni tipo di valutazione centrale.
In poche parole, il presidente siriano Bashar al-Assad ha ora nelle mani un potente strumento per perseguitare i suoi dissidenti in ogni angolo del mondo: già la mera emissione di un “avviso rosso” preclude, in alcuni stati, l’accesso allo status di rifugiato e un “avviso rosso” per “terrorismo” potrebbe portare ben presto all’estradizione del ricercato.
Cosa accade ai siriani rimpatriati lo abbiamo raccontato appena un mese fa.