Liquidata la stagione M5S con un voto inequivocabile, Torino si predispone al ballottaggio fra i due candidati rimasti in corsa senza che, almeno in apparenza, la campagna politica si inasprisca più di tanto. Come se i temi del confronto fra gli aspiranti sindaco fossero altro rispetto ai travagli quotidiani dei cittadini – in testa il lavoro, i servizi e la ripresa economica della città -, soprattutto di quella metà abbondante che non è andata a votare al primo turno.
La città è depressa, lo si avverte perfino nelle chiacchiere al bar, ma i due candidati non ce la fanno proprio a dire che le responsabilità del declino sono di quel Sistema Torino, nato nel 1993 con la prima giunta Castellani e che non da oggi tiene immobilizzata la città. È formato da un centinaio di persone, tutte scelte per cooptazione, “ […] provenienti da cinque ambienti: il milieu Fiat, quello accademico, il milieu ex PCI, quello liberal, ispirato ai principi del liberalismo, il milieu cattolico, in linea con la Curia. Questo insieme di persone ai vertici del sistema locale per posizione organizzativa, funzione, prestigio, ecc. ha influenzato direttamente o indirettamente il policy making per tutta la durata del Modello Torino.” (Belligni e Ravazzi, “La politica e la città. Regime urbano e classe dirigente a Torino”, il Mulino 2012).
Sancire la fine del Sistema Torino significa anche prendere atto che tra il 2005 e il 2018 – scrivono Belligni e Ravazzi -, mentre la media dei capoluoghi metropolitani riduceva le spese per politiche sociali del 15%, il Comune di Torino tagliava per il 30%; nel settore ambiente e territorio a Torino – 9%, a fronte di un +49% medio. La spesa per l’istruzione è calata del 30%, a fronte di un incremento medio del 17%; la spesa per i trasporti -49%, a fronte di una media nazionale di -8%; le spese per la cultura -53%, a fronte di un -17% su scala nazionale. Come se non bastasse, nel 2017 il Comune di Torino risulta il più indebitato d’Italia, 4mila € pro-capite. Così, “La forte capacità dell’economia di influenzare la strutturazione e il funzionamento della società ha avuto come risvolto la difficoltà della politica, ne ha limitato la capacità di decisione autonoma, l’ha vincolata a una funzione di rincalzo” (Luciano Gallino).
La certificazione del declino sta qui: al tramonto del modello fabbrica, che aveva fatto grande la città, il Sistema Torino ha contrapposto l’illusione che la gastronomia, le passeggiate nelle Langhe, il turismo e la cultura spettacolo potessero rilanciare la città senza una manifattura al passo coi tempi e collegata ai suoi poli formativi e tecnologici. Così arriviamo all’oggi.
Proprio in questi giorni Stellantis si prepara ad annunciare il trasferimento del Polo del lusso Maserati di Grugliasco all’interno di Mirafiori, accompagnato da una nuova campagna di licenziamenti concordati, destinata a ridurre la presenza torinese della company a circa 3000 dipendenti totali. Come ci ricorda Marco Revelli, cinquant’anni fa nel torinese i dipendenti Fiat erano circa 130mila, 60mila dei quali a Mirafiori. Dieci anni fa erano ancora 50mila – meno della metà, ma pur sempre una presenza pesante -, oggi sono meno di 4mila (2600 appena collocati in cassa integrazione per due settimane), destinati a calare ancora di fronte agli 800 esuberi già dichiarati.
La presenza e il contributo della Fiat è già da tempo poco rilevante nell’economia dell’area metropolitana torinese, tranne che per la mole immensa di ammortizzatori sociali utilizzati per fare fronte alla scelte del suo management, gli aiuti elargiti da Comune e Regione, a volte giustificati da compravendita di aree “definite” strategiche per operazioni importanti di ridisegno del tessuto urbano (una delle ultime della serie costata 6,7 milioni di euro a Regione e Comune per acquisire una parte dell’ex Fiat Avio).
A Torino è in corso la gara per la realizzazione della Città della Salute destinata a sostituire le Molinette, uno dei centri sanitari d’eccellenza in Italia e in Europa. In questa campagna elettorale se ne è trattato poco e senza disegnare l’idea di come potrebbe cambiare la città: sul piano della formazione del personale sanitario, dell’aumento ne fabbisogno di manodopera a media qualificazione per gestire i servizi sanitari accessori, dei possibili insediamenti di imprese che operano nel biomedicale e nella ricerca applicata in campo sanitario, di come e dove favorirli. Sempre a Torino il progetto “Casa delle tecnologie emergenti”, oltre 13 milioni di investimento iniziale, pubblico e privato, oltre 3000 soggetti coinvolti: anche qui, silenzio. È lavoro, così come è lavoro intervenire sulla cultura, sull’istruzione sul traballante welfare cittadino, invecchiato malamente anche perché il declino della città ha ampliato a dismisura la platea dei bisognosi.
Non si parla di questioni di profilo così alto da essere intraducibili in impegni politici e progetti da realizzare, si parla di economia reale e di famiglie, ammortizzatori sociali, politiche per il lavoro. Non si conosce la posizione dei due candidati circa il modo con cui vorrebbero affrontare questi e altri temi che potrebbero aiutare la città a uscire dal declino. In questo contesto, perfino il modo in cui i due candidati hanno affrontato i 391 lavoratori dell’ex-Embraco genera qualche inquietudine su come gestiranno il futuro della città: simpaticamente Damilano ha assunto l’impegno di ricollocarli tutti presso i suoi amici imprenditori, Lorusso ha abbozzato.
Sembra lo standard di questa campagna elettorale – fatta di aggiustatine e di impegni sparpagliati dove più i cittadini premono, ben attenti a non scontentare nessuno – a opera di candidati che faticano a capire che il progetto della città futura comincia dalla liberazione delle energie che possiede. Così si fanno portare sempre più giù, illudendosi di placare il furore della pancia con promesse di nuovi marciapiedi decoro urbano e sicurezza. Così alimentano oltre ogni misura quella sensazione di inutilità della politica, dei candidati, dei partiti che è alla radice dell’astensionismo attivo registrato appena pochi giorni fa. Alimenta anche l’idea che siano così fragili da non riuscire neanche completamente a governare i loro supporter; difficile leggere in altro modo l’accettazione da parte del dem Stefano Lo Russo del diktat (per lui autolesionista) di uno dei piccoli partiti della sua coalizione, i Moderati: mai coi cinquestelle sennò andiamo da soli, firma! E lui ha firmato.
L’avvenimento clou del pre-ballottaggio consiste nella salita a Torino dei big boss del centrodestra che proveranno a rianimare le periferie astensioniste per ricreare l’effetto Appendino che, cinque anni fa, le permise di vincere con 8 punti di vantaggio nonostante partisse dal 30% contro il 41 del concorrente Piero Fassino. Dunque di questo si parlerà negli ultimi giorni prima del voto.
Il candidato Damilano ha dato prova di riuscire a essere autonomo dai partiti nazionali che sostengono la sua candidatura, palesa un’impreparazione amministrativa che compensa con la credibilità come imprenditore, Food & Beverage. Lascia intendere che, se eletto, potrebbe circondarsi di collaboratori così validi da riuscire a governare un cambiamento di cui ancora non si scorgono i contenuti e neanche i confini. Il candidato Lo Russo rappresenta l’esperienza del centrosinistra torinese (molto centro, poca sinistra), vale a dire della fase terminale del Sistema Torino; dalla sua una rete capillare di supporter che potrebbe ancora fare la differenza. La Confindustria locale non sembra scaldarsi per nessuno dei due, così come il mondo accademico e ciò che resta della società civile torinese.