Otto anni sono un periodo lunghissimo nello sport. Due cicli olimpici interi, la possibilità di programmare, seminare e anche raccogliere: non è stato un ct qualsiasi, ma vuoi per il suo modo di essere, vuoi per la sua grande popolarità fra i tifosi, è diventato davvero un simbolo. Ci ha messo sempre la faccia, la sua più grande sfortuna invece è averlo fatto durante la più grave e profonda crisi della storia recente del ciclismo italiano
Se n’è andato senza sbattere la porta, nonostante un addio non proprio consensuale, con lo stesso modo pacato con cui aveva guidato la nazionale. Anzi, di più, rappresentato il ciclismo italiano. È finita l’era di Davide Cassani. Otto anni difficili per il movimento delle due ruote: tanto affetto, grande visibilità, qualche rimpianto, pochissime vittorie, almeno quelle che contano. La notizia era nota da mesi, da quando in piene Olimpiadi il nuovo corso federale guidato dal presidente Cordiano Dagnoni aveva fatto capire di avere intenzione di dare una svolta tecnica, anche in segno di discontinuità con il passato: il contratto si è interrotto il 30 settembre, i Mondiali di Leuven sono stati la sua ultima sua corsa da commissario tecnico. Ieri però l’addio è diventato ufficiale e definitivo, quando Cassani ha comunicato di aver rifiutato la nuova offerta della Federazione, che gli aveva chiesto di rimanere ma come capo della “Ciclistica servizi”, una partecipata della Federazione. Proposta che sapeva un po’ di contentino ed è stata educatamente rispedita al mittente: “Io sono un uomo da strada e non da scrivania, è questa essenzialmente la ragione per cui io non posso e non voglio andare contro me stesso”, ha scritto Cassani nel suo post di addio.
Otto anni sono un periodo lunghissimo nello sport. Due cicli olimpici interi, la possibilità di programmare, seminare e anche raccogliere. Quando finisce, è per forza tempo di bilanci. Anche perché Davide Cassani non è stato un ct qualsiasi, ma vuoi per il suo modo di essere, vuoi per la sua grande popolarità fra i tifosi, è diventato davvero il simbolo del ciclismo azzurro. Ha finito per rappresentarlo anche a livello istituzionale, al posto della evanescente Federazione guidata dall’ex numero uno Renato Di Rocco, che non riusciva a combinare quasi nulla per il movimento. Cassani era un po’ il volto di riferimento, forse la foglia di fico. Ci ha messo sempre la faccia.
Questo è stato il suo più grande merito. La sua più grande sfortuna invece è averlo fatto durante la più grave e profonda crisi della storia recente del ciclismo italiano. Un bilancio non può prescindere dai risultati. E quelli dell’era Cassani sono, oggettivamente, deludenti. Ha vinto tanti Europei, addirittura 4, che però sono una manifestazione secondaria nel ciclismo. Contano Mondiali e Olimpiadi, qui siamo a secco da una vita: rispettivamente da Alessandro Ballan a Varese 2008 e Paolo Bettini ad Atene 2004, dopo il nulla. Certo, se Vincenzo Nibali non fosse caduto a Rio 2016 quando era in testa e lanciato verso l’oro, se Matteo Trentin avesse spuntato quei pochi centimetri che gli mancavano nel 2019 in Yorkshire, oggi racconteremmo un’altra storia. Ma purtroppo così non è e per consolarsi non bastano gli strepitosi ori iridati a cronometro di Filippo Ganna.
Il palmares è fermo a zero su strada, vera cartina di tornasole del movimento, ma cosa si può imputare al ct Cassani? Forse solo una strategia di gara non sempre perfetta, a volte persino troppo intraprendente, quando magari sarebbe stato meglio giocare di rimessa con questi uomini. Invece la sua idea è sempre stata quella di lasciare un’impronta azzurra sulla corsa, raccogliendo pochissimo com’era forse inevitabile. Perché Cassani ha dovuto davvero fare le classiche nozze con i fichi secchi. L’Italia è sempre più marginale nel panorama delle due ruote mondiali: non produce più corridori da grandi giri, e nelle classiche non va troppo meglio come dimostrano i risultati, salvo poche eccezioni come l’ultimo, storico successo di Sonny Colbrelli alla Parigi-Roubaix. Colpa di una crisi profondissima che affonda le radici in tante motivazioni, dall’assenza di una squadra pro Tour a metodologie di allenamento vecchie, su cui Cassani non ha responsabilità. Anzi, ha pure provato a metterci una pezza. Sotto e grazie la sua gestione, ad esempio, l’Italia ha finalmente cominciato a coltivare la multidisciplinarietà, che è la nuova frontiera del ciclismo moderno, come dimostra l’exploit della pista (che ha comunque un suo ct, Marco Villa, il cui ruolo non va sminuito). Ha fatto il possibile per aiutare gli azzurri anche all’interno dei loro team, e ha tenuto sempre vivo il rapporto con i tifosi, la loro passione, nel momento più difficile delle sconfitte e della disaffezione. Per questo, anche se alla fine il piatto piange, al ciclismo azzurro Cassani mancherà comunque.
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