Il mio ateneo era partito male con l’internazionalizzazione, ai tempi del bando avverso agli studenti “non lumbard” di fine anni ’80. Negli ultimi vent’anni, però, ha fatto passi da gigante, conquistando appieno un respiro internazionale. Otto su dieci sono gli allievi stranieri del Laboratorio dove, per l’ultimo anno, sto insegnando, su temi di infrastrutture nel paesaggio. E sono tutti giovani di ottima qualità, culturale, professionale e umana.

Mentre l’Italia declinava da quarta potenza economica mondiale nel 1991 all’attuale ottavo posto, alcuni atenei italiani hanno nuotato controcorrente come un salmone scozzese, ma senza scale di risalita che ne agevolassero le pinnate. Ricordo con nostalgia la prima allieva cinese del mio dottorato, coorte 1989. Una giovane eccezionale, pure lei ormai prossima alla pensione, che dirige l’ufficio per le infrastrutture idriche in Estremo Oriente della Banca Mondiale. Entrò in quella istituzione come stagista con l’unico viatico di una lettera di raccomandazione che mi aveva chiesto di scrivere con beata insistenza.

All’epoca era una eccezione, perché la maggioranza degli stranieri che venivano a formarsi in Italia, spedita da governi spesso autoritari, faceva parte della categoria dei servi sciocchi, non di quella dei giovani di valore. Negli ultimi dieci anni, la qualità degli allievi stranieri è profondamente mutata, decisamente migliorata. Molti giovani preferiscono l’Europa e l’Italia al tradizionale approdo americano.

Che futuro ha la cooperazione universitaria internazionale, se le relazioni tra Occidente e Cina si deteriorano, degenerando nella seconda puntata della Guerra Fredda? Il recente Rapporto “Pathways to the future” della European University Association (Uea) delinea, tra i diversi scenari possibili, un mondo diviso nelle sfere di interesse di tre potenze dominanti, in concorrenza tra loro: Stati Uniti, Cina e Unione Europea. La Ue ha ormai acquisito potere e coesione interna sufficienti per svolgere sulla scena internazionale un ruolo pari agli Stati Uniti o alla Cina. E la storia la spinge a interpretare questo ruolo con crescente convinzione. Nello stesso tempo, le tre potenze globali accettano le loro differenze in termini di valori e sistemi politici. E si rinchiudono nelle loro fortezze.

L’Europa non vede più nella cooperazione internazionale un mezzo per diffondere valori universali come i diritti umani e la democrazia, ma si sta impegnando per garantirsi una autonomia strategica di accesso ai mercati e alle risorse. Stati Uniti e la Cina agiscono allo stesso modo. Tutti e tre cercano di difendere, rafforzare ed espandere le loro sfere di influenza, evitando però il confronto diretto.

La Uea auspica università europee aperte, transnazionali e in grado di promuovere la continua trasformazione che sta già avvenendo nel mondo. E capaci di costruire partenariati solidi, coinvolgendo un’ampia gamma di attori a livello locale e internazionale: “Le università dovrebbero perciò utilizzare tutte le opportunità offerte dalla digitalizzazione, combinando spazi fisici e virtuali in un ambiente olistico di apprendimento e ricerca che soddisfi le esigenze di una comunità universitaria diversificata”. Sara così?

Il vero rischio è che il confronto tra potenze geografiche mini l’autonomia delle università. Da attori autonomi, aperti e transnazionali, gli atenei potrebbero trasformarsi in strumenti esecutivi, indirizzati e controllati dalla politica e dall’economia. E l’autonomia diventa una sfida assai ardua, se le stesse sfere dell’economia e della politica diventano sempre meno distinte e si fondono generando un’unica entità di gestione del potere.

Le tendenze verso l’autoritarismo e il mercatismo, assieme alle crescenti tensioni a scala globale, restringono l’arena delle università. Per rispondere alla sfida, gli atenei europei devono accentuare i propri valori transnazionali e insistere nell’apertura: la libera mobilità degli studenti e dei docenti è un valore e una necessità. E combattere la crescente monetizzazione dell’istruzione, trasformata in una merce.

Se l’università europea non ce la farà, confido nella nascita di istituzioni di frontiera, come fu lo Iiasa di 50 anni fa, inaugurato dai presidenti Johnson e Kosygin. L’International Institute for Applied Systems Analysis di Laxemburg, Vienna, fu per molti anni il Checkpoint Charlie della scienza, la porta aperta alla cooperazione scientifica e tecnologica tra i due blocchi, occidentale e sovietico. Era un ponte che si affacciava sulle questioni globali con taglio interdisciplinare, dove si sono formati moltissimi studiosi ormai in pensione, dagli economisti ai climatologi e perfino idrologi.

Se una chiusura ci sarà, ci farà parecchio male non soltanto la perdita di una bella fetta di clienti, ma ci mancherà anche e soprattutto la rinuncia alla ricchezza culturale che ho apprezzato negli ultimi anni insegnando idrologia del paesaggio.

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