Nel commercio e servizi 274 contratti diversi: per lo stesso posto da aiuto commesso c’è chi prende 1.600 euro e chi deve accontentarsi di 1.100 (lordi). Per il settore delle pulizie 28 accordi: quelli peggiori – con minimi salariali da 5 euro all’ora senza quattordicesima, per non parlare di permessi e ferie – a volte vengono utilizzati pure negli hotel e addirittura negli ospedali per ridurre i costi. Nel tessile, un Ccnl regolarmente registrato prevede una paga base mensile (per 13 mensilità) di 816 euro contro i quasi 1.400 di quello firmato dai sindacati maggiori. E si applica pure all’autotrasporto, al settore metalmeccanico e a quello orafo. Sono i riflessi concreti, per i lavoratori, del Far west dei contratti pirata: la degenerazione patologica delle normali relazioni industriali. Si tratta di contratti nazionali sottoscritti quasi sempre da sigle di rappresentanza minori, fittizie o “di comodo”, che puntano fondamentalmente a togliere dalle buste paga soldi e benefit. Fino a ridurre lo stipendio anche di un terzo. Situazioni così diffuse che diventa difficile derubricare il salario minimo a misura inutile in quanto la contrattazione collettiva darebbe sufficienti tutele. Anche perché non mancano i casi in cui salari molto bassi, a volte sotto la soglia di povertà, sono stati negoziati anche dai confederali.
Secondo l’ultimo report del Cnel, a giugno si contavano in Italia addirittura 985 contratti nazionali vigenti (compresi quelli del settore pubblico), di cui più di metà scaduti da anni. Ma la prova della proliferazione di quelli pirata viene dalle percentuali di applicazione: quasi il 90% dei dipendenti fa capo a non più di 60 contratti. Nel commercio e terziario i cinque più applicati coprono l’85% dei lavoratori, più di 3 milioni di persone. Gli altri? Dispersi in una miriade di accordi al ribasso. Tutti formalmente validi, visto che l’articolo 39 della Costituzione è rimasto inattuato e nonostante una lunga teoria di tentativi delle parti sociali e dei governi ancora non esiste un meccanismo di misurazione della rappresentatività delle sigle sindacali.
Nel commercio 500 euro in meno per lo stesso lavoro – Giovanni Piglialarmi, ricercatore di diritto del Lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia, di contratti ne ha analizzati 18, firmati da Cisal (Confederazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori) e Confsal (Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori). Non c’è comparto che si salvi: “Nella metalmeccanica un manutentore potrebbe guadagnare 1650 euro con il ccnl Federmeccanica, ma se ha quello Cisal ne prenderà 1100 lordi”. Nel commercio, se il Ccnl firmato da Confcommercio e dai confederali prevede per un garzone – tra paga base e contingenza – un minimo di 1.280 euro per 14 mensilità in caso di full time con maggiorazione del 30% nei festivi, “quello di Cifa (Confederazione italiana federazioni autonome) e Confsal consente alle aziende del Sud e dei Comuni sotto 10mila abitanti di tagliare la cifra a poco più di 1.000 euro“. Ancora più macroscopico il gap tra il contratto Confesercenti-confederali e quello Anpit–Cisal: “Per un commesso 1.256 euro se lavora in Lombardia e 100 in meno se sta in una “Regione depressa”, contro i 1.616 euro garantiti dal contratto Confesercenti”, quantifica Piglialarmi. “Un aiuto banconiere scende a 1.070 euro, dai 1.500 del ccnl firmato dai confederali”. Non solo: “La maggiorazione per lo straordinario notturno è solo del 28%: il 22% in meno rispetto al Ccnl Confesercenti. Quella per lo straordinario festivo si riduce dal 30 al 25%”.
Nella logistica e trasporto il Ccnl principale, rinnovato a maggio dopo due anni di attesa e lo sciopero di marzo, prevede ora per i profili più bassi un minimo di 1.328 euro per il personale non viaggiante e poco più di 1.700 per i conducenti, cifre che saliranno di 90 euro a regime nel 2024. Ma di contratti ce ne sono altri 76, tra cui quello firmato da Confederazione esercenti agricoltura artigianato commercio con minimi contrattuali da 958 euro e il Ccnl di Italia Impresa, Associazione imprese italiane, Aiva e Fitral che, come attestano le tabelle Cnel, per il primo livello di inquadramento prevede 1.084 euro per i soci e 1.130 per i non soci. Per non parlare del contratto collettivo sottoscritto l’anno scorso da Assodelivery con Ugl Rider, che garantiva 10 euro all’ora ma solo “proporzionalmente ai minuti stimati per le consegne effettuate” e inquadrava i ciclofattorini come lavoratori autonomi senza diritto a malattia, maternità e tredicesima: è stato dichiarato illegittimo dal tribunale di Bologna.
Il caso del tessile: “Contratti pirata risultato delle catene globali di produzione” – Peggio ancora va nel tessile, dove il contratto Cisal per i cosiddetti “faconisti” (la subfornitura) prevede, spiega Piglialarmi, “un trattamento da 1.290 euro per un aiuto modellista che per fare lo stesso mestiere in un’azienda che applica il Ccnl siglato da Sistema moda Italia e confederali prenderebbe invece 1.794 euro“. All’ottavo livello, quello degli inservienti o addetti a mansioni di manovalanza, la paga base è 816 euro. E ancora, il caso più recente: a fine settembre una nuova associazione datoriale del settore della concia delle pelli e un sindacato autonomo hanno partorito un contratto nazionale che presenta, continua il ricercatore, “forti differenze salariali” al ribasso rispetto a quello di Unic – concerie italiane e settoriali di Cgil, Cisl e Uil, rinnovato a gennaio.
Secondo Paolo Tomassetti, ricercatore di diritto delle relazioni industriali e ora Marie Skłodowska-Curie Research fellow presso il Centre de droit social dell’Università Aix-Marseille, nel tessile è la struttura stessa delle catene globali di produzione a determinare il ricorso a contratti pirata. “Le grandi imprese multinazionali del settore appaltano parti del ciclo del prodotto a imprese più piccole che si servono di subappalto e subfornitura. Più ci si allontana dalla casa madre, più gli anelli della catena sono deboli e le produzioni diventano ad alta intensità di manodopera e basso contenuto di tecnologia e competenze“. In passato proprio per questo motivo si realizzavano prevalentemente in Sud-Est asiatico, Nord Africa ed Est Europa. “Ma oggi è in atto una rilocalizzazione: le piccolissime imprese dei distretti, da Prato a Casarano alle periferie delle metropoli, piacciono ai committenti perché il marchio made in Italy è attrattivo e sono più vicine ai mercati di destinazione. Al tempo stesso devono comunque competere con gli stabilimenti del Sud-Est asiatico, del Nord Africa e dell’Est Europa. Così cercano espedienti per abbattere i costi. Il contratto pirata consente di farlo rischiando meno che con il lavoro irregolare e sommerso”.
L’unico argine sono i tribunali. “Ma molti hanno paura” – Se i sindacati, pur con qualche apertura, insistono sui vantaggi della contrattazione rispetto a un salario minimo orario nudo e crudo (che esiste in 21 Paesi europei su 27), è innegabile che senza un minimo stabilito per legge il risultato è il Far West. Con l’unico argine dei giudici del lavoro, che hanno stanato in più occasioni i “pirati” valutando incostituzionali retribuzioni di pochi euro all’ora: l‘articolo 36 della Carta, infatti, sancisce il diritto a una paga “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa“. Ma “le sentenze non si traducono in un azzeramento del contratto e l’esito della causa vale solo per chi la fa”, sottolinea il giuslavorista Fausto Raffone che di casi in materia ne ha seguiti diversi, tra cui – va detto – anche quello che ha visto dichiarare inadeguati, in quanto inferiori alla soglia di povertà assoluta, i 930 euro lordi al mese pagati a un lavoratore in base al Cncl Vigilanza privata firmato da Filcams Cgil e Fisascat Cisl (non dalla Uiltucs). E ha difeso lavoratori che a valle di diversi cambi di appalto si sono ritrovati a fare lo stesso lavoro con uno stipendio ridotto del 40-45% rispetto a pochi anni prima. “Il problema è che molti, ora che le tutele contro i licenziamenti sono ridotte, hanno paura a passare alle vie legali. Che comunque hanno un costo. Quindi da un lato le risposte della giurisprudenza hanno avuto successo nel “calmierare” il boom di contratti farlocchi che era esploso nei servizi mensa, pulizie e vigilanza privata e poi in tutta la logistica, dall’altro continuano ad esserci sacche di lavoro con minori tutele e diritti affievoliti“.
I giuslavoristi: “Salario minimo non confligge con ruolo e autonomia sindacale” – “In questo contesto serve una legge sulla rappresentatività ma soprattutto un’autorità di controllo che a valle ne valuti l’effettività, in base ai reali numeri dei sindacati sul territorio”, commenta Aurora Notarianni, giuslavorista e membro dell’Agi-Avvocati Giuslavoristi Italiani. “Si è proposto il Cnel che già tiene l’archivio nazionale dei ccnl. Ma la normativa sul salario minimo è altra cosa: ha rilievo europeo e il legislatore dovrebbe occuparsene. L’autonomia contrattuale si ferma davanti alla Costituzione, in base alla quale la retribuzione dev’essere proporzionata e sufficiente”. D’accordo il collega Enzo Morrico, vice presidente Agi: “Se una fonte legislativa prevedesse un minimo, resterebbe ovviamente nell’autonomia delle organizzazioni sindacali negoziare accordi migliorativi sia sul salario sia sul welfare. Dire che il datore sarebbe invogliato a limitarsi ad applicare il minimo è una dichiarazione di impotenza“. Vero è anche che il salario minimo non basta, da solo, per risolvere il problema del “lavoro povero”. Che è legato a doppio filo anche ai troppi part time involontari, alla bassa quota di donne che lavorano, all’assenza di politiche industriali che favoriscano la creazione di posti di alta qualità. Ma è uno dei tasselli. Insieme al reddito di cittadinanza, dice Tomassetti alla luce degli studi sul settore tessile: “E’ una politica che elimina il ricatto occupazionale, dando un’alternativa rispetto alla necessità di accettare meno diritti e meno salario pur di tenersi il lavoro”.