Approvate alla Camera all’unanimità, con 393 sì e nessun contrario, le modifiche al Codice sulle pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo. Il testo mira a sostenere la presenza femminile nel mercato del lavoro e a combattere il gender pay gap, ossia le differenze salariali. Tra le novità anche l’istituzione della “certificazione della parità di genere“: un sistema per premiare le aziende che si impegnano a ridurre il divario di genere sulle opportunità di carriera, a riequilibrare la retribuzione e ad attuare politiche di gestione delle disuguaglianze di genere e di tutela della maternità. “Con il voto di oggi alla Camera siamo a un passo dall’istituire anche in Italia un meccanismo di trasparenza e garanzia per milioni di donne lavoratrici, una legge che garantisca i diritti di ciascuna sul luogo di lavoro, dal reclutamento alla retribuzione fino alle opportunità di carriera”, dichiara la deputata del Pd Chiara Gribaudo, relatrice del provvedimento. L’obiettivo, aggiungono in una nota i deputati del Movimento 5 Stelle in Commissione lavoro, è “incentivare le buone pratiche e garantire alle donne le stesse possibilità di crescita”. Plauso anche da Forza Italia e Lega.
I datori di lavoro di imprese (pubbliche e private) con più di 50 dipendenti saranno obbligati a stilare rapporti pubblici biennali sulla situazione del personale e i ruoli occupati da uomini e donne. Fino ad oggi, secondo l’articolo 46 del Codice, dovevano farlo solo quelle con più di 100 impiegati. Un decreto ministeriale definirà i contenuti del rapporto, che dovranno comprendere comunque “le indicazioni per la redazione del rapporto, comprendenti il numero dei lavoratori occupati distinti per sesso, il numero degli eventuali lavoratori distinti per sesso assunti nel corso dell’anno, le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l’inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato (anche con riferimento alla distribuzione fra i lavoratori dei contratti a tempo pieno e a tempo parziale), l’importo della retribuzione complessiva corrisposta, delle componenti accessorie del salario, delle indennità, anche collegate al risultato, dei bonus e di ogni altro beneficio in natura ovvero di qualsiasi altra erogazione che abbia eventualmente riconosciuto a ciascun lavoratore”, ovviamente senza dati che permettano di indentificarne l’identità. Dovranno anche essere inserite “informazioni e dati sui processi di selezione e di reclutamento, sulle procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, sugli strumenti e sulle misure resi disponibili per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso e sui criteri adottati per le progressioni di carriera”. L’elenco delle aziende tenute all’obbligo andrà trasmesso alla consigliera o al consigliere nazionale di parità entro il 31 dicembre di ogni anno.
Saranno poi previsti incentivi alle assunzioni e agevolazioni fiscali per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle lavoratrici. Le aziende private che, al 31 dicembre dell’anno precedente rispetto a quello di riferimento, saranno riuscite a ottenere la “certificazione di pari opportunità”, potranno ottenere uno sgravio contributivo parziale, fino a 50mila euro all’anno. I parametri per ottenere il premio, così come le modalità di acquisizione dei dati e le forme di coinvolgimento dei sindacati, sono rinviati a uno o più dpcm del Ministro con delega alle pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e quello dello Sviluppo economico. Le aziende che non rispettano l’obbligo di presentare il rapporto saranno soggette, se l’inottemperanza si protrae per oltre dodici mesi rispetto al termine di 60 giorni, alla sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda possibilità. La verifica della veridicità dei rapporti è affidata all’Ispettorato nazionale del lavoro. Se si rivelano falsi o incompleti “si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro”.
Le norme poi tentano di combattere gli atti di discriminazione diretta e indiretta. Vengono, per esempio, inseriti tra questi ultimi decisioni organizzative o cambiamenti improvvisi dell’orario di lavoro che ne modificano tempi e condizioni e, di conseguenza, implicano per le dipendenti uno svantaggio rispetto ai loro colleghi, una limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali o un freno all’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera. Le modifiche sono in accordo con le azioni in materia previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Ora manca solo l’ultimo passaggio al Senato. “assegnarlo in sede deliberante alla commissione Lavoro, come richiesto dal capogruppo del M5s al Senato Licheri e da Pd e Leu in una missiva indirizzata alla presidente Casellati lo scorso agosto, consentirebbe di imprimere un’accelerazione significativa all’iter di approvazione della legge”, scrive la presidente della commissione Lavoro del Senato Susy Matrisciano.