Il film è qualcosa di incredibilmente ostico da seguire, ma anche magicamente poetico da accarezzare anche solo per pochi mirabili istanti
Solitudine e desiderio. Solitudine e desiderio. Non c’è ritrattista minimale e scrupoloso di questo sfasamento dell’anima come Tsai Ming-liang. 33 inquadrature fisse – di cui un paio della durata di quasi dieci minuti – e due molto brevi con macchina da presa in movimento, Days è il nuovo dolente e lucente film del regista taiwanese in Concorso, tra l’altro, al Festival di Berlino 2020, da oggi nelle sale italiane (pochissime, ma cercatele).
Il cinema di Tsai all’ennesima potenza, insomma, con il prolungamento naturale dello scorrere del tempo in ogni singola inquadratura, la mancanza pressoché assoluta di dialoghi (sulla seduta di agopuntura si parla ma poi ci torniamo), il montaggio tra sequenze e mai all’interno della singola sequenza, la contemplazione dilatata dell’essere vivente, il corpo dell’individuo spesso immobile o colto in micromovimenti appena accennati o palesemente banali (cucinare cibo, aprire gli occhi dopo aver dormito).
Kang (Lee Kang-Sheng, attore feticcio di tutti i film di Tsai) è un signore borghese solitario di mezza età che vive in un appartamento spartano ma confortevole e che potremmo sostenere essere afflitto da un fastidioso dolore muscolare tra collo e testa. Non (Anong Houngheuangsy) è un ragazzo laotiano immigrato che vive in uno spazio di fortuna e che viene colto nei gesti quotidiani del lavaggio di frutta e pesce. Quando Kang giunge in città per curarsi con l’agopuntura i dolori articolari, scorge un annuncio su una bacheca per un “massaggio completo” offerto a pagamento da Non. L’incontro avviene in una lussuosa camera d’albergo. Poi Kang paga Non e gli regala anche un carillon. I due mangiano qualcosa insieme, Kang torna a casa, cura il giardino, si risveglia dopo una lunga dormita. Non di notte, nelle brulicante città, si riposa su una panchina, apre il carillon ascolta la musica mentre i rumori della strada coprono il motivo musicale. Il ragazzo si alza, se ne va, e si mescola tra la folla.
Un lampo, un’increspatura, una effervescente onda che si alza e si infrange nel mare del quotidiano, per un cinema che pretende un’attenzione particolare, una sospensione illimitata e fiduciaria della visione, una penetrazione sottopelle di un disagio tattile e psicologico da scacciare sinuosamente con l’erotismo di un incontro fortuito. Le quattro sequenze di vere cure mediche dell’attore Lee sono state riprese nel 2015 quando ancora nulla era stato sviluppato nella scrittura e nella produzione del film. Days è qualcosa di incredibilmente ostico da seguire, ma anche magicamente poetico da accarezzare anche solo per pochi mirabili istanti.