L'ex senatore torna a parlare in un'intervista al Foglio. Una sorta di monologo in cui cambia per la prima volta versione sull'arrivo del boss di Porta Nuova a villa San Martino. Niente di stravolgente a livello giudiziario: aneddoti a parte, tutto quello che racconta è già cristallizzato nella sentenza definitiva che lo ha condannato a sette anni per concorso esterno a Cosa nostra. Semmai c'è da chiedersi: perché ha raccontato tutta una serie di cose che smentiscono quanto dichiarato nell'ultimo un quarto di secolo? Perché ha deciso di riferire alcuni aneddoti che possono mettere in imbarazzo pure Berlusconi? E perché ha deciso di farlo ora?
Questa volta la parola eroe non la pronuncia mai. E non cita neanche i cavalli. In oltre 25 anni d’indagini non era mai successo che Marcello Dell’Utri parlasse di Vittorio Mangano senza fare cenno ai preziosi equini che il boss di Porta nuova doveva accudire nelle scuderie di villa san Martino ad Arcore. Questa, almeno, è sempre stata la tesi difensiva dello storico braccio destro di Silvio Berlusconi, appassionato bibliofilo che ha accompagnato l’imprenditore meneghino lungo tutta la sua scalata: dal settore immobiliare alle televisioni, fino alla fondazione di Forza Italia. Ora, però, Dell’Utri cambia completamente versione: a cosa serviva la presenza di Mangano a casa di Berlusconi? “Eravamo negli anni 70, e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati in un periodo violentissimo della storia di questo paese. C’erano i rapimenti allora“. Niente di stravolgente a livello giudiziario: aneddoti a parte, tutto quello che Dell’Utri racconta in una lunghissima intervista al Foglio è già cristallizzato nella sentenza definitiva che lo ha condannato a sette anni per concorso esterno a Cosa nostra. Semmai c’è da chiedersi: perché Dell’Utri ha raccontato tutta una serie di cose che smentiscono quanto dichiarato nell’ultimo un quarto di secolo? Perché ha deciso di riferire alcuni aneddoti che possono mettere in imbarazzo Berlusconi? E perché ha deciso di farlo ora?
L’ex senatore torna a parlare – Dopo quattro anni in carcere e uno e mezzo ai domiciliari, l’ex presidente di Publitalia è tornato libero alla fine del 2019. Solo qualche settimana fa, invece, si è liberato da un’altra ingombrante condanna: è stato infatti assolto in Appello al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. “Quella gran minchiata della Trattativa“, la definisce lui, usando col Foglio massicce dosi della sua consueta ruvida ironia. In effetti più che un’intervista quella di Dell’Utri è quasi un monologo, una chiacchierata con un giornale fondato da un amico. Che l’ex senatore omaggia con tanto di citazione: nel 1996, quando gli arrivò la convocazione dei pm di Palermo, Giuliano Ferrara fu “l’unico che mi aveva detto di mandarli al diavolo e non andare“. Ora al posto di Ferrara a dirigere il Foglio c’è Claudio Cerasa, che a raccogliere i “Diari di Marcello” – come ha deciso di titolare l’articolo – ha mandato il suo vice, Salvatore Merlo, nipote di Francesco, firma di Repubblica, il primo a raccontare un aneddoto da film: Berlusconi che, ridendo, bacia le mani di Dell’Utri e lo chiama “don Dell’Utro“.
L”incendio al campo di tiro al piattello – L’intervista si apre con l’ex senatore che conferma a Merlo junior quella circostanza riportata da Merlo senior. Il clima è rilassato. Poi, però, infila subito nel discorso un ricordo inedito di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, il mafioso che da oltre quarat’anni proietta la sua ombra scura sulla storia dell’ex presidente del consiglio: “Un giorno – narra Dell’Utri – scoppiò un piccolo incendio in un campo di tiro al piattello che confina con il giardino della villa di Arcore. E siccome Berlusconi qualche settimana prima si era lamentato con Mangano dei rumori che la domenica da quel campo di tiro a piattello gli impedivano di riposare, ecco che dopo l’incendio Silvio lo chiama. E gli chiede: ‘ Vittorio, ma che è successo al tiro al piattello?’. E quello, in palermitano, che sembrava uscito da un film su Cosa nostra: ‘ Cortocircuito fu“. Dell’Utri ride: “Ma ve la immaginate la scena? Berlusconi si sganasciava dalle risate. La raccontava a chiunque. E la coloriva. Aggiungeva particolari inventati. Se avessi mai immaginato che tutto questo mi sarebbe costato sette anni di carcere“. La scena, oggettivamente, è molto divertente. Ma ha un problema: entra irrimediabilmente in contrasto con quanto sostenuto sia da Dell’Utri che da Berlusconi in tutti questi anni. Anche perché, più avanti nell’intervista, l’ex senatore ricorda “quando Mangano e Tanino Cinà vennero a Milano dalla Sicilia. Berlusconi dopo averli squadrati, mi fa: ‘ Uhm, accidenti che facce‘”. Insomma: pure quello che allora era solo un’imprenditore edile si accorse di essere al cospetto di due soggetti particolari. “Ma bisogna capire il momento – si giustifica Dell’Utri – Eravamo negli anni 70, e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati in un periodo violentissimo della storia di questo paese. Una faccia da duro. C’erano i rapimenti allora. Mangano venne a vivere ad Arcore con la moglie, la mamma della moglie e le due figlie. Che giocavano in giardino con i figli di Berlusconi. Non sembrava un mafioso vero, sembrava il personaggio di un film con Alberto Sordi in Sicilia. Uno sul quale si può persino fare dell’ironia”. Un racconto davvero esilarante.
Tutto quello che non torna – Il problema è che fino a oggi sia Dell’Utri che Berlusconi hanno sempre giustificato l’arrivo di Mangano ad Arcore con la necessità di assumere uno che capisse “di terreni, di cavalli, di cani“: non con il bisogno di proteggersi dai sequestri. Anche perché per “tenere lontani i malintenzionati” di solito si chiamano i carabinieri o la polizia. Se invece assumi un boss di Cosa nostra la vicenda si complica. E di parecchio, anche. Già nel 1987, interrogato dai magistrati di Milano, Berlusconi giustificò così quell’assunzione: “Ad Arcore avevo bisogno di un fattore, di uno che si occupasse dei terreni, dei cavalli, degli animali… Chiesi a Dell’Utri, che mi presentò Vittorio Mangano come persona conosciuta da un suo amico: assumerlo fu una mia scelta, su una rosa di nomi che mi vennero prospettati. Non feci indagini preventive perché Mangano mi diede l’idea di una persona a posto e competente“. Nei successivi racconti di Dell’Utri, invece, scompare la “rosa di nomi“e dunque la casualità nella scelta del boss di Porta Nuova: non trovando in Brianza un professionista del ramo, Berlusconi avrebbe chiesto all’amico Marcello se per caso non ci fosse qualcuno di adatto tra le sue conoscenza in Sicilia. È a quel punto che Dell’Utri sostiene di essersi ricordato di Mangano, conosciuto – dice lui – sui campi da calcio della Bagicalupo, squadra dilettante palermitana, dove giocava pure il figlio di Cinà. Questa versione è quella messa a verbale da Dell’Utri davanti ai pm nel 1996: negli anni successivi è stata ripetuta più volte. Pure dallo stesso Berlusconi. “Mangano e Cinà? Persone apparentemente perbene, dai modi gentili. Era impossibile sospettarne i legami mafiosi“, è arrivato a dire l’ex premier solo qualche anno fa. E la battute sulle facce da duri? E l’incendio al campo di tiro a piattello, che disturbava il suo riposo domenicale? Berlusconi, ovviamente, non ne aveva mai fatto cenno. E dire che sul tema è stato interpellato più volte: pure durante indagini delicate. Anche quel virgolettato sui “modi gentili” di Mangano e Cinà è stato messo a verbale dall’ex premier in qualità di persona informata dei fatti davanti ai pm di Palermo. Era il 2012 e all’epoca i magistrati sospettavano che i 40 milioni versati versati nel giro di 10 anni dall’ex cavaliere all’amico Marcello potessero essere il frutto di un’estorsione, compiuta dallo stesso Dell’Utri. Che ovviamente ha sempre negato: “Perché mi ha dato quei soldi? Perché io per lui ho creato un impero finanziario prima e uno politico poi. Anzi dovrebbe darmi di più”, si difendeva l’ex senatore all’epoca, fermato dai cronisti nei corridoi del palazzo di giustizia di Palermo.
“Lui ambisce al Quirinale” – Quell’indagine per estorsione passò successivamente a Milano per competenza territoriale, prima di essere archiviata. Poi, però, Dell’Utri è stato condannato in via definitiva per concorso esterno. “L’assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo”, c’è scritto nella sua sentenza di condanna. Dunque a livello giudiziario oggi Dell’Utri non racconta niente di nuovo. Però con le dichiarazioni al Foglio proietta una luce diversa sulla consapevolezza che poteva avere Berlusconi quando aveva a che fare con Mangano e Cinà. La domanda è: perché lo fa? E perché lo fa ora? Nell’intervista l’ex presidente di Publitalia è consapevole che l’aneddoto dell’incendio al campo di tiro al piattello può nuocere all’amico Silvio: “Guardi che la usano contro Berlusconi“, fa presente al giornalista prima di ricordare che “in effetti lui pensa di andare al Quirinale. Cosa che io boh mi pare improbabile. Anche se io a Silvio gli ho visto fare cose che sembravano impossibili. Quindi mai dire mai“. E a proposito delle cose impossibili cita “il Bunga Bunga“, che è costato al suo sodale due processi: uno – quello per corruzione in atti giudiziari – è ancora in corso. Se ad Arcore hanno letto Il Foglio l’umore non sarà dei migliori.
“Ho conosciuto uno più siciliano di noi” – Anche perché nell’intervista c’è anche altro. Dell’Utri ricorda che lui e Berlusconi si conoscono fin da quando erano ragazzi: “Lui fu una delle prime persone che conobbi quando mi trasferii da Palermo per studiare. Mio padre mi aveva messo in guardia: ‘ Marcello, tieni conto che a Milano non sono caldi come noi. Fare amicizia sarà un po’ più difficile’. E invece io dopo pochi giorni ero già a pranzo a casa di questo Silvio che mi faceva stare a tavola con sua mamma, suo papà, suo fratello e sua sorella. Come uno di famiglia. Così telefonai a mio padre: ‘ Non ci crederai, ma io qua a Milano ho conosciuto uno che è più siciliano di noi‘”. Non è la prima volta che a Berlusconi danno del siciliano: Umberto Bossi lo definiva “un palermitano che parla meneghino“. Quella, però, voleva essere un’offesa visto che all’epoca la Lega aveva rotto col centrodestra ed erano appena cominciate le indagini sui contatti tra Cosa nostra e Dell’Utri. Il quale, va ricordato, è l’unico – oltre a Berlusconi – che si può fregiare del titolo di fondatore di Forza Italia. Alle prime riunioni per pianificare il nuovo partito, conferma oggi, c’era anche Bettino Craxi: “Era alto, miope e distratto. E Berlusconi invece è sempre stato preciso e attento alle apparenze. Quello gli faceva la pipì sulla tavoletta del bagno della casa di Sankt Moritz, dove poi andavano gli altri ospiti. Quindi Silvio si alzava, con discrezione, e sistemava tutto prima che se ne accorgesse qualcuno”. Un altro aneddoto che non avrà fatto piacere ad Arcore. Ancora meno sarà piaciuta l’ammissione che Dell’Utri fa sui motivi dell’entrata in politica di Berlusconi: “E’ vero che in quegli anni c’erano dei rischi che gravavano sulle sue attività. Mi ricordo benissimo quando il Credito Italiano gli chiese di rientrare con il prestito. Capimmo che volevano fare con lui quello che già avevano fatto con Rizzoli. E allora reagimmo. La discesa in campo fu anche una difesa dell’azienda“.
I saluti (e i bonifici) di B. – Uno potrebbe pensare: ma non è che Dell’Utri c’è rimasto male, visto che da quando è finito in carcere dice di non aver sentito l’amico Silvio? Lui nega. “Gliel’avevano vietato gli avvocati. Anzi per cinque anni gli hanno proprio vietato di incontrarmi, persino di parlarmi al telefono. Credo che il primo a soffrirne sia stato lui”, dice oggi, sottolineando, però, che “Confalonieri veniva a trovarmi in carcere, almeno una volta al mese. E io gliene ero grato, più di quanto forse non sia mai stato in grado di fargli capire. Mi portava i saluti di Silvio. Sempre“. E mentre Confalonieri portava i saluti di Berlusconi fin dentro Rebibbia, fuori dal carcere il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza segnalava alla procura di Milano “l’operatività sospetta” di alcuni bonifici partiti dai conti dell’ex premier e diretti ai figli di Dell’Utri e alla moglie Miranda Ratti: più di tre milioni di euro, giustificati quasi sempre come “prestiti infruttiferi” nella causale. Soldi che evidentemente sono già finiti, insieme ai 40 milioni su cui indagava la procura di Palermo nove anni fa, se è vero che oggi Dell’Utri ha dovuto rinunciare al suo enorme studio in pieno centro a Milano: “Qui avevo duemila metri quadrati di spazio“, ma “non me lo potevo più permettere. Ero in affitto dalla Cariplo, oggi Intesa Sanpaolo. Troppo caro. Gli avvocati, sa. Costano. Qui avevo allestito il Teatro di Verdura, lì alle spalle c’è il giardino reale. Avevo spazi per allestimenti. E la biblioteca, soprattutto. Avevo anche il mio appartamento qui, la mia casa di sempre. L’ho dovuta lasciare”, dice al giornalista del Foglio, che è andato a trovarlo proprio in quella che era la sua residenza al numero 14 di via Senato. A poche centinaia di metri c’è via Palestro, dove il 27 luglio del 1993 una Fiat Uno imbottita di esplosivo uccise cinque persone: è una delle stragi di mafia per cui la procura di Firenze insiste nel sospettare un coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri.
La tesi su Forza Italia, il docufilm – È proprio sfruttando lo status d’indagato per reato connesso che, nel novembre del 2019, Berlusconi si è potuto avvalere della facoltà di non rispondere al processo sulla Trattativa: a citarlo come testimone era stata proprio la difesa del suo amico Marcello. Miranda Ratti, la moglie di Dell’Utri destinataria fino a pochi anni prima dei bonifici da parte di Berlusconi, non la prese bene: “E’ meglio che non parlo, meglio che non dico quello che penso”. “Mai chiamare a testimoni né amici né coglioni“, dice oggi Dell’Utri al giornale di Cerasa. Poi specifica in quale delle due categorie inserisce Berlusconi: “Io non ho visto né sentito il mio amico dal 2014. Fino all’altro giorno”. Nonostante il silenzio in aula dell’ex premier, infatti, Dell’Utri è riuscito comunque ad essere assolto nel processo d’Appello sulla Trattativa. Ed è stato subito riammesso nel cerchio magico di Arcore, insieme a Confalonieri e Galliani: “Li ho rivisti l’altro giorno, Fedele e Adriano. Alla festa di compleanno di Berlusconi ad Arcore. Quando finalmente l’ho potuto riabbracciare. C’erano i figli di Silvio, i nipoti. Tutta la famiglia. E poi c’erano Confalonieri e Galliani. Allora Berlusconi ha detto: ‘ Ho invitato solo tre amici‘. E io: ‘ Gli unici che sono rimasti in vita“. E che hanno ancora tanto da raccontare. E infatti Dell’Utri non parla solo di passato, ma pure di presente. Dice che non gli piace la nuova linea editoriale di Mediaset (“Hanno fatto la televisione di Salvini, sì. E che ci possiamo fare? E’ il clima che c’è dentro l’azienda, credo. Populismo e demagogia”), che non gli piace la vicinanza di Forza Italia alla Lega (“Preferisco quelli che non urlano, che non sparano minchiate dalla mattina alla sera, che parlano poco”) e condivide l’appoggio a Mario Draghi (“Mi ha convinto, mi piace lo stile. E mi fa anche simpatia epidermica. Non va neanche in televisione. Fantastico”). L’ex senatore, poi, spiega che nonostante gli 80 anni, compiuti da poco più di un mese, ha progetti pure per il futuro: in carcere si è iscritto di nuovo all’università, a Lettere, e ora gli hanno proposto di scrivere la tesi sulla fondazione di Forza Italia. Lui non dice se ha accettato o meno. Però aggiunge: “Sa che adesso inizio a girare un docufilm sulla mia storia? Lo produce Sandro Parenzo. Io interpreto me stesso. Forse intervisterò Berlusconi. E chissà, anche Gian Carlo Caselli“. Chissà cosa ne pensano ad Arcore.
*Articolo aggiornato alle ore 11 del 15 ottobre 2021