“Per fare un paragone calcistico, siamo un po’ come una squadra di provincia che arriva in finale contro una corazzata. Partiamo svantaggiati, ma ce la metteremo tutta”. Raffaele Caruso è l’avvocato genovese che assiste il Comitato ricordo vittime ponte Morandi, fondato dai parenti delle 43 persone rimaste uccise nella strage del 14 agosto 2018. Venerdì – dopo quasi tre anni di indagini – si aprirà l’udienza preliminare nei confronti di 59 imputati più le due società Autostrade per l’Italia (Aspi) e Spea, la controllata che si occupava delle manutenzioni al momento del disastro. Sotto la tensostruttura montata nel cortile del Palazzo di giustizia di Genova, Caruso – insieme ai colleghi di studio – si troverà di fronte a una missione difficile: convincere il gup Paola Faggioni ad ammettere il Comitato tra le decine di parti civili che porteranno la propria voce nel processo.

Non è un passaggio banale, anzi. Perché quasi tutte le famiglie – escluse soltanto due – hanno le mani legate da un accordo firmato con Aspi che le impegna a non costituirsi, in cambio del risarcimento già ottenuto in via extragiudiziale. Una strategia adottata per ridurre al minimo il numero di controparti nel processo. Ma l’enorme sfida alla concessionaria è proprio superare quella clausola: “I soldi non sono tutto, ma c’è una battaglia di giustizia di cui vogliamo essere parte, e riteniamo di avere il diritto di esserlo”, spiega l’avvocato al fattoquotidiano.it. “La comunità delle vittime è un’entità diversa dai singoli, che nasce a causa del reato commesso. E assume un ruolo attivo nella società civile, nel dibattito pubblico, come portatrice degli interessi lesi dal reato. Tutti sanno che i parenti delle vittime esistono, anche se non conoscono i nomi. E questo soggetto collettivo, costretto a esistere dal dramma, ha il diritto di chiedere a sua volta in giudizio il risarcimento di un danno che non è più patrimoniale, ma morale“. Una richiesta che però – precisa – se e quando avverrà, sarà soltanto simbolica. “Il senso ultimo di partecipare al processo non è l’aspetto economico, è chiedere verità nella sede migliore per farlo: in una dinamica dialettica come quella del processo è giusto che una rappresentanza delle vittime, emotiva e simbolica, ci sia e possa portare il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti”.

La strada, ammette lui stesso, è in salita, perché quella del Comitato non è una domanda comune. L’orientamento dei tribunali, infatti, è molto restrittivo nel dare l’ok alla costituzione di parte civile di enti nati in seguito ai fatti oggetto del processo. Nell’atto di trenta pagine che presenteranno in udienza, gli avvocati delle vittime citeranno in particolare due precedenti: uno riguarda l’Anpi, l’associazione dei partigiani, ammessa a partecipare a processi per crimini di guerra; l’altro, invece, il processo per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, in cui si costituì la Regione Toscana, istituita solo nel 1970, ventisei anni dopo l’eccidio. “Siamo agguerriti e determinati, ma anche realisti”, dice Caruso. “Però, se la giudice accogliesse la nostra domanda, sarebbe un precedente importantissimo. E d’altra parte, se legittimamente si ammettono come parti civili le associazioni più diverse, dalle sigle dei consumatori ai sindacati, non si vede perché non dovrebbe essere ammesso, nel “suo” processo, il Comitato, che ha l’interesse più intenso e più diretto alla giustizia”.

Oltre ai parenti delle vittime, il legale chiederà la costituzione di parte civile anche per il comune di Pinerolo (il paese della famiglia di Egle Possetti, portavoce del Comitato) e e sta lavorando per valutare l’ingresso nel processo di un centinaio di commercianti e cittadini dei quartieri a ridosso del viadotto, riuniti nel Comitato zona arancione ponte Morandi. La gran parte di loro sono danneggiati dal reato, per le gravi perdite economiche subiti dalle loro attività (alcune delle quali hanno dovuto chiudere). Altri, però, hanno direttamente lo status di persone offese: sono le persone che hanno assistito al disastro dal vivo, come i lavoratori di Amiu (la municipalizzata dei rifiuti) che si trovavano in un capannone proprio lì sotto e sono scampati alla morte per un nulla, rimanendo vittime di sindrome di una diagnosticata sindrome psichiatrica da stress post-traumatico. Il comitato, coordinato da Massimiliano Braibanti, ha svolto in questi anni un’enorme opera di advocacy, mettendo in contatto i danneggiati con il team legale che si è occupato di valutare, per ognuno di loro, le domande da portare in giudizio.

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