di Gionata Borin
Ilda Boccassini (detta Ilda la Rossa) è stata un magistrato dalla schiena dritta, che ha condotto tra le più importanti inchieste sul crimine organizzato, la corruzione e il terrorismo negli ultimi quarant’anni della storia giudiziaria del nostro Paese.
Una vera donna in trincea, che ha cercato quasi sempre di evitare telecamere, riflettori o prime pagine: rare interviste; rarissime partecipazioni a convegni; zero comparse in programmi tv (se non una a Il fatto di Enzo Biagi nel lontano ‘98); ma finendo suo malgrado sotto ai riflettori nel corso degli anni e soprattutto sotto al fuoco della delegittimazione, della calunnia e della diffamazione mediatica, da parte degli house organ berlusconiani, per la sola colpa di aver toccato con le proprie indagini l’ex Cavaliere e il suo entourage.
Ora, si ha come l’impressione che una certa “antimafia” abbia iniziato ad usare lo stesso metodo, sollevando in maniera scandalistica il racconto presente nel suo libro autobiografico La stanza numero 30, dove la Boccassini parla di una presunta “relazione” tra lei e Giovanni Falcone e del fatto che se ne fosse innamorata. Scandalo sollevato forse per cercare di evitare che si parli dei contenuti ben più scottanti riportati all’interno del libro, quasi nel tentativo di boicottarlo. Stesso discorso vale per i giornali di “distrazione di massa”, intenti a scrivere delle effusioni tra la ex pm milanese e il giudice antimafia, quasi a voler far passare il racconto come una sorta di romanzetto di genere rosa.
In realtà, più uno legge il libro della Boccassini e più si rende conto del perché tanto nervosismo intorno a questo libro da parte di pseudo “antimafiosi” e di certa stampa. Al suo interno vengono riportati dei fatti e posti dei temi sui quali l’opinione pubblica, il giornalismo, la politica e la magistratura stessa dovrebbero quantomeno porsi degli interrogativi, per cercare di capire cosa è realmente successo in quella stagione tra il ’92 e il ’93 a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica:
1) Le indagini condotte nel ’94 assieme al Capitano Ultimo sui pagamenti di Silvio Berlusconi a Cosa Nostra e bruciate da una talpa, che inviò i verbali del collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi e ai giornalisti di Repubblica Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, i quali pubblicarono la notizia. Lo stesso D’Avanzo, 17 anni dopo, svelò e fece il nome alla Boccassini di chi fosse l’informatore segreto.
2) La trasferta in Argentina nel ’91 con Falcone nonostante fosse già al ministero di Grazia e Giustizia a Roma, per interrogare il boss Gaetano Fidanzati, che Falcone riteneva soggetto importante nel versante delle indagini sui rapporti tra i potentati economici di Milano e la mafia siciliana.
3) Il fatto di aver riportato che: “… Scarpinato era stato uno dei magistrati che avevano ostacolato Giovanni (Falcone) quand’era in Procura…”. Questa è la prima volta, a memoria, che qualcuno fa il nome dell’attuale pg di Palermo come uno di quei magistrati che, all’interno della procura, ostacolarono il lavoro del nemico numero uno di Cosa Nostra, oltre all’allora capo Pietro Giammanco.
Ecco, delle questioncine del genere, riportate nel libro di Ilda Boccassini, avrebbero dovuto suscitare e risvegliare una coscienza critica, avrebbero dovuto destare maggior interesse e far porre determinati interrogativi ad un giornalismo cane da guardia del potere, ad un’opinione pubblica e soprattutto ad una certa “antimafia” distratta dal gossip di una cotta amorosa riportata in un libro-documento che racconta e svela molto e molto di più sulla storia giudiziaria di questo disgraziato paese.